查看原文
其他

翁贝托·萨巴诗100首

意大利 星期一诗社 2024-01-10

Ammonizione 


Che fai nel ciel sereno

bel nuvolo rosato,

acceso e vagheggiato

dall’aurora del dí?

Cangi tue forme e perdi

quel fuoco veleggiando;

ti spezzi e, dileguando,

ammonisci cosí:

Tu pure, o baldo giovane,

cui suonan liete l’ore,

cui dolci sogni e amore

nascondono l’avel,

scolorerai, chiudendo

le azzurre luci, un giorno;

mai piú vedrai d’intorno

gli amici e il patrio ciel.




La casa della mia nutrice 


La casa della mia nutrice posa 

tacita in faccia alla Cappella antica, 

ed al basso riguarda, e par pensosa, 

da una collina alle caprette amica.

La città dove nacqui popolosa 

scopri da lei per la finestra aprica; 

anche hai la vista del mar dilettosa 

e di campagne grate alla fatica.

Qui – mi sovviene – nell’età primiera, 

del vecchio camposanto fra le croci, 

giocavo ignaro sul far della sera.

A Dio innalzavo l’anima serena; 

e dalla casa un suon di care voci 

mi giungeva, e l’odore della cena.




Lettera ad un amico pianista studente al 

 Conservatorio di... 


Elio, ricordi il bel tempo gentile,

l’amicizia fraterna 

che ci univa pel gioco nel cortile

della casa materna?

Eran chiassi, eran salti; un tal nasceva

suon d’allegria crescente, 

che alle finestre intorno si vedeva

affacciarsi la gente,

fin quando, muto rimprovero, un lume

nell’interno brillava, 

e della sera con le fredde brume

l’ombra nera calava.

Ma spesso tu sedevi pensieroso

al cembalo sonoro; 

ed io in un canto udivo il dilettoso

angelico lavoro.

Le tue dita rendevan la canzone

dell’amor, della vita; 

e s’accendeva in me la visione

d’una pace infinita.

O uno strano presagio il cor m’empiva

di mestizia profonda. 

Ed ecco, sorridendo a noi veniva

una signora bionda,

una bella signora, di cui gli anni

già volgevano a sera;

ch’era buona e severa, 

che celava ad ognuno i propri affanni,

ch’era tua madre. Elio, è al tuo cor presente

quella bionda signora? 

e nel sonno, o con gli occhi della mente,

la rivedi tu ancora?

Come tutto mutò! Come la vita

diversa oggi m’appare!

Quante immagini care 

m’han, via fuggendo, l’alma impaurita!

Quanta dolcezza, quanta ingenua fede

l’ha in brev’ora lasciata! 

Cosí spezzarsi, dileguar si vede

nube in cielo rosata.

Pace ha tua madre giú nel cimitero.

Quasi a trarne conforto 

a lei va reverente il mio pensiero;

poi tosto a te lo porto;

a te che sconosciute vie all’intorno

empiendo vai di suoni; 

né, fin che al tutto non è spento il giorno,

il cembalo abbandoni.

Oh potessi sedermi a te d’accanto!

Udire quei tranquilli 

arpeggi, quelle fughe, quel tuo canto,

quei tuoi limpidi trilli

di rosignolo. Io scorderei di certo

di mia vita l’errore; 

ritornerei fanciullo ed inesperto

dell’umano dolore.

Per te il bel tempo rivivrei gentile,

l’amicizia fraterna 

che ci univa – ricordi? – nel cortile

della casa materna.




Canzonetta 


Ero solo in riva al mare, 

all’azzurro mar natio, 

e pensavo te amor mio, 

te lontano a villeggiar.

Era il vespro, era nel mare 

presso a scender l’astro d’oro; 

d’onda in onda un rivol d’oro 

si vedeva folgorar.

Di tra i monti in ciel lo spicchio 

della bianca luna nacque; 

si vedeva in un sull’acque 

il suo argento tremolar.



Sonetto di primavera 


Città paesi e culmini lontani 

sorridon lieti al sol di primavera. 

Torna serena la natia riviera. 

Sono pieni di canti il mare e i piani.

Io solo qui di desideri vani 

t’esalto, mia inesperta anima altera; 

poi stanco mi riduco in sulla sera 

alla mia stanza, e incerto del domani.

Là seggo sovra il bianco letticciolo,

e ripenso a un’età già tramontata,

a un amor che mi strugge, all’avvenire.

E se nell’ombra odo la voce amata 

di mia madre appressarsi e poi morire, 

spesso col pianto vo addolcendo il duolo.




Da un colle1 


Era d’ottobre; l’ora vespertina 

di pace empiva e di dolcezza il cuore. 

Solitario il sentier della collina 

salivo dietro un bue e un agricoltore.

Giunto alla vetta, scorsi in un fulgore 

Trieste con le chiese e la marina; 

e in un boschetto, come un rosso fiore 

l’amata casa sull’opposta china.

Delle squille veniva a me il richiamo; 

e come all’orizzonte il sol calato 

faceva i vetri delle case ardenti,

d’un pino al tronco m’appoggiai beato, 

ne svelsi, sospirando, un basso ramo, 

e diedi un nome, un caro nome, ai vènti.

1 Questo sonetto è stampato qui, per la prima volta, nella sua forma originale; piú infantile forse, ma piú schietta. Comunque, piú cara al mio cuore.




Glauco 


Glauco, un fanciullo dalla chioma bionda, 

dal bel vestito di marinatetto, 

e dall’occhio sereno, con gioconda 

voce mi disse, nel natio dialetto:

Umberto, ma perché senza un diletto 

tu consumi la vita, e par nasconda 

un dolore o un mistero ogni tuo detto? 

Perché non vieni con me sulla sponda

del mare, che in sue azzurre onde c’invita? 

Qual è il pensiero che non dici, ascoso, 

e che da noi, cosí a un tratto, t’invola?

Tu non sai come sia dolce la vita 

agli amici che fuggi, e come vola 

a me il mio tempo, allegro e immaginoso.




Nella sera della domenica di Pasqua 


Solo e pensoso dalla spiaggia i lenti 

passi rivolgo alla casa lontana. 

È la sera di Pasqua. Una campana 

piange dal borgo sui passati eventi.

L’aure son miti, son tranquilli i vènti 

crepuscolari; una dolcezza arcana 

piove dal ciel sulla progenie umana, 

le passioni sue fa meno ardenti.

Obliando, io penso alle leggende

di Fausto, che a quest’ora era inseguito

dall’avversario in forma di barbone.

E mi par di vederlo, sbigottito

fra i campi, dove ombrosa umida scende

la notte, e lungi muore una canzone.



Cosí passo i miei giorni 


Cosí passo i miei giorni, i mesi, gli anni. 

Altro non chiedo in gioventú piacere 

che tessere nell’ombra vuoti inganni, 

care immagini sí, ma menzognere.

Solo a volte mi mescolo alle altere

genti del mondo. E anch’io quei loro affanni

provo: non cure tacite severe,

ma le lotte crudeli e l’onte e i danni.

Onde poi ritornando all’oziosa 

pace dei sogni miei lunghi e fatali, 

trovo ancora piú dolci i colli aprichi,

il mar, gl’interminabili viali,

ove al rezzo dei grandi alberi antichi

il mio cuore s’addorme e si riposa.




La sera 


Or che biancheggia in ciel sulla pianura 

la solitaria falce della luna, 

e abbandonano i monti ad una ad una 

le mandre, ch’eran sparse alla pastura;

cosí buona la Terra, cosí pia

sembra in quest’ora devota dell’Ave,

che un inganno soave

tiene l’animo e i sensi in sua balia.

La mia sorte obliando in un profondo

mito che m’innamora,

mi par vivere quando, nell’aurora

dei popoli, eran pochi uomini al mondo;

che nel mio petto,

col raggio della sera,

discenda la severa

tranquillità del vecchio patriarca.

Sull’uscio assiso della pia dimora

egli mirava la nascente stella,

i pingui bovi, le ricciute agnella,

la campagna di fiori e frutta carca.

Or sento in me quel sovrumano amore,

quell’estatica calma,

e chino anch’io la testa sulla palma,

e quasi attendo i messi del Signore.




Dormiveglia 


Trillava un cardellino 

nell’attonita stanza, 

e il sole s’oscurava. 

Un rullo, una campana, 

il gallo a quando a quando 

s’udivano; e il mattino 

piú si andava velando. 

Io giacevo sognando, 

e brevi erano l’ore. 

Poi un altro sopore 

prese l’anima mia, 

una malinconia 

che fu in breve dolore. 

Restai solo con esso. 

Maledissi la sorte. 

Desiderai la morte. 

Ma venne la speranza 

col suo chiaro sorriso, 

e mi baciò sul viso, 

e mi chiamò un eletto. 

Ricondusse al mio letto 

il sonno che fuggiva.




La cappella chiusa 


Par da secoli chiusa. Alla sua porta,

fra le dita il rosario,

siede il mendico, cieco e solitario.

Chiusa è per sempre. Gente

morta quanta vi entrò, con dietro ardente

cera e vano dolore. L’erba cresce

sotto i gradini, alimentava un nero

muschio l’umidità nelle sue crepe.

Altro il suo cimitero

non è che un prato: questo né custode

vigila, né la cancellata serra.

Chi gli si appressa ode fanciulli guerra

fingere e paci rotte da improvvisi

inseguimenti; fra le sue compagne

e le tombe ripete i nuziali

riti d’un tempo la bambina ignara.

Bruca una capra l’erba corta e rara.

Ed io sosto, ed un poco

anche qui siedo, e guardo quei fanciulli

nuovi, l’antico gioco,

quelli che a me nel gioco

si rivelano, come la figura

dell’uomo in pochi segni

di carbone su un muro, eterni veri.

Ecco: qui tutto con i miei pensieri

è fraterno; ogni aspetto un nuovo lato

del mio spirito adombra.

Dall’erta amica alla mia infanzia, all’ombra

della chiusa cappella, scorgo il cielo

pallido azzurro con le prime stelle,

l’Alpi lontane, i colli, la città

che sui colli si estese, che di borghi

s’arricchisce e di enormi

navi, onde tutti suonano i cantieri;

navi per mari, per porti remoti,

a chi li vide, non li vide mai,

sempre noti ed ignoti.

Ed anche tu che della morte – è assai

tempo – vivevi, forse un giorno invano

cercherò; qui disutile rovina,

una scuola, tra poco, un’officina,

altro su quelle tombe sorgerà.

Cosí sempre al suo ieri 

spera l’uomo migliore il suo domani, 

ben che una voce gli dica: Domani 

si soffrirà come soffrimmo ieri.




A mamma 


Mamma, c’è un tedio oggi, una sottile

malinconia, che dalle cose in ogni

vita s’insinua, e fa umili i sogni

dell’uomo che il suo mondo ha nel suo cuore.

Mamma, ritornerà oggi all’amore

tuo, chi un dí l’ebbe a vile?

Chi è solo con il suo solo dolore?

Ed è un giorno di festa, oggi. La via 

nera è tutta di gente, ben che il cielo 

sia coperto, ed un vento aspro allo stelo 

rubi il giovane fiore, e in onde gonfi 

le gialle acque del fiume. 

Passeggiano i borghesi lungo il fiume 

torbido, con violacee ombre di ponti. 

Sta la neve sui monti 

ceruli ancora; ed il mio cuore, mamma, 

strugge, vagante fiamma 

nei dí festivi, la malinconia.

E tu pur, mamma, la domenicale 

passeggiata riguardi dall’aperta 

finestra, nella tua casa deserta 

di me, deserta per te d’ogni bene. 

Guardi le donne, gli operai (quel bene, 

mamma, non scordi) gli operai che i panni 

d’ogni giorno, pur tanto utili e belli, 

oggi a gara lasciati hanno per quelli 

delle feste, sí nuovi in vista e falsi. 

Ma tu, mamma, non sai che sono falsi. 

Tu non vedi la luce che io vedo. 

Altra fede ti regge, che non credo 

piú, che credevo nella puerizia,

mamma, nella remota puerizia.

Guardi fanciulli con nudi i ginocchi

forti, con nuove in attoniti occhi

voglie, che tra i sudati

giochi nacquero a un tratto in cuore ai piú.

Escono a stormi, vociano, ed il piú

alto con gesta tra di bimbo e d’uomo.

Una giovane passa; ecco, le han dato

del gomito nel gomito.

Irosa ella si volge, e in cor perdona.

Quello addietro rimasto la persona

piega, che un fonte

vide, e di fonte

acqua non costa alla sua sete nulla.

Mamma, non io cosí, mai. La mia culla 

io la penso tagliata in strano legno. 

Tese l’animo mio sempre ad un segno 

cui non tesero i miei dolci compagni. 

Mamma, è forse di questo che tu piangi 

sempre là nella tua casa deserta? 

Lacrimi ancora; e dalla non piú aperta 

finestra, con la sera

entra delle campane, entra il profondo 

suono, il preludio della dolce notte, 

d’un’insonne per te, gelida notte. 

Ad ogni tocco piú verso la notte 

è roteato il mondo.

Mamma, un tempo ci fu che, le campane

udendo, sulle mie guance una sola

lacrima il vespro amato di viola

tinse, per cose assai dolci e lontane.

Ma quelle guance erano imberbi ancora;

ma diverso è il mattino dall’aurora

tanto, che piú me stesso io non conosco.

Quasi un salubre tosco

nel giovane versò la solitaria

forza, onde solo egli è pur fra le genti.

Non vide i passi tuoi farsi piú stanchi, 

o dolce madre, e i tuoi capelli bianchi 

sulle povere tempie.

Mamma, un tempo fu ancora – il tuo – che in ogni

dottrina la piú saggia eri tenuta

da me, da me che la tua bocca muta

feci poi con l’audacia dei miei sogni.

Tu pel fanciullo eri l’infallibile,

eri colei che non conosce errore.

L’umile tua parola nel suo cuore

si scolpiva cosí ch’ebbe indicibile

angoscia quando, per la prima volta,

pur come ogni altra, la tua mente folta

d’errori, avvolta nel dubbio scoperse.

Mamma, il tempo fu quello che d’avverse

forze piena sentii l’umana vita,

sí che indugio alla mia casa il ritorno.

Ben mi apparvero eterne

verità, ma infinita

n’è l’amarezza, e a sdegno ebbi la grande

casa, il terrazzo ove leggevo Verne,

pallido d’ansia nelle rosse sere.

Poi nel sonno sognavo l’Oriente

barbaro; e quanta gente

non vinceva la mia piccola mano!

Era incerto fra il riso e il pianto il ciglio

tuo su quel sonno; ora è lontano il figlio

unico, e il tempo fugge.

Mamma, il tempo che fugge

t’ansia; e l’ansia che impera

nel tuo cuore c’è, forse, anche nel mio;

c’è, pur latente, il male che ti strugge;

son le tue cure in me domenicali

malinconie.

Lente lente ora sfollano le vie

nella sera di festa, e verdi e rossi

accendono fanali le osterie

di campagna. È una strana sera, mamma,

una che certo affanna

i cuori come il tuo soli ed amanti,

sugli ultimi mari i naviganti,

dentro l’orride celle i prigionieri.

Canterellando scendono i sentieri

del borgo i cittadini,

torna dolce al fanciullo la sua casa;

ed il mistero ond’è la vita invasa

tu con preghiere esprimi.

Mamma, il tempo che fugge 

cure con cure alterna; ma in chi sugge 

il latte e in chi denuda la mammella 

c’è un sangue solo per la vita bella.




A Lina 


Primieramente udii nella solenne 

notte un richiamo: il chiú. 

Dell’amore che fu, 

Lina, mi risovvenne.

Quanti suoni risposero a quel suono,

quanti canti a quel canto!

Strinse il cuore un rimpianto

di te; ti chiesi dell’oblio perdono.

Ultimamente udii nella solenne 

notte un gemito: il chiú. 

Del dolore che fu, 

Lina, mi risovvenne.




Meditazione 


Sfuma il turchino in un azzurro tutto 

stelle. Io siedo alla finestra, e guardo. 

Guardo e ascolto; però che in questo è tutta 

la mia forza: guardare ed ascoltare.

La luna non è nata, nascerà

sul tardi. Sono aperte oggi le molte

finestre delle grandi case folte

d’umile gente. E in me una verità

nasce, dolce a ridirsi, che darà

gioia a chi ascolta, gioia da ogni cosa.

Poco invero tu stimi, uomo, le cose.

Il tuo lume, il tuo letto, la tua casa

sembrano poco a te, sembrano cose

da nulla, poi che tu nascevi e già

era il fuoco, la coltre era e la cuna

per dormire, per addormirti il canto.

Ma che strazio sofferto fu, e per quanto

tempo dagli avi tuoi, prima che una

sorgesse, tra le belve, una capanna;

che il suono divenisse ninna-nanna

per il bimbo, parola pel compagno.

Che millenni di strazi, uomo, per una

delle piccole cose che tu prendi,

usi e non guardi; e il cuore non ti trema,

non ti trema la mano;

ti sembrerebbe vano

ripensare ch’è poco

quanto all’immondezzaio oggi tu scagli;

ma che gemma non c’è che per te valga

quanto valso sarebbe un dí quel poco.

La luna è nata che le stelle in cielo

declinano. Là un giallo

lume si è spento, fumido. Suonò

il tocco. Un gallo

cantò; altri risposero qua e là.




Il sogno di un coscritto 

 (L’osteria fuori porta)


Or che di molte passioni l’urto 

si addormí nel respiro 

della notte profonda, 

e fatto ha la ronda 

ultima l’ultimo giro;

che là solo e di furto

arde ancora un lucignolo fumoso,

penso, in blando riposo,

penso lo smarrimento che al fervore

dei miei sogni seguiva, entro un’antica

osteria fuori porta, oggi, nell’ore

della libera uscita.

Ero là con i miei nuovi compagni; 

là con essi seduto ad un’ingombra 

tavola, quando un’ombra 

scese in me, che la mia vita lontana 

tenne, con la sua forza, con le sue 

pene, da quel tumulto vespertino. 

Centellinavo attonito i miei due 

soldi di vino.

Non un poeta, ero uno sperduto 

che faceva il soldato, 

guatandosi all’intorno l’affollato 

mondo, stupido e muto;

che come gli altri, in negro 

vino il suo poco rame barattava 

che coi baci la mamma a lui mandava, 

triste no, non allegro;

con nella mente fitta

sola un’idea, recata

da un suon lontano: fosse la prescritta

ora trascorsa della ritirata.

Né si squarciò quel velo, 

né a vivere tornai di questa mia 

vita, prima che fredda nella via 

fosse la notte e in cielo.




Durante una marcia 


1

Poi che il soldato che non va alla guerra 

invecchia come donna senz’amore, 

questo vorremmo: la certezza in cuore 

di vincere, ed andar di terra in terra.

Qui andiamo sí, ma a tanta nostra guerra 

manca il nemico che ci miri al cuore, 

manca la morte che il fuggiasco atterra, 

manca la gloria per cui ben si muore.

Son brutte facce intorno a me, e sudori. 

Guardo il compagno: mezza lingua fuori 

gli pende, come a macellato bue.

O canta, Carmen, le bellezze tue, 

le lodi in coro della tua persona. 

Il cielo, senza mai piovere, tuona.


2

Pure a me non dispiace ancor quest’urto 

soldatesco, quel cielo arroventato, 

i colloqui col mio vicino armato. 

Gli chiedo: «A casa, ove il lavoro frutta;

a casa, dove certo hai la tua tutta 

bella, ci andresti, anche cosí aggravato, 

a piedi, con lo zaino affardellato, 

vivendo d’elemosina e di furto?»

Egli mi guarda, e mi lascia parlare. 

«Non è al paese che frutta il lavoro, 

ma piú giú nell’Americhe lontane;

dove c’è tanto vino e tanto pane,

tanto oro per chi sa lavorare.

In America sí, vorrebbe andare».


3

Ed io, se a volte di sí aspra vita 

soffro, che i sensi ne son tutti offesi; 

credi, non è la gravezza dei pesi, 

è l’inutilità della fatica.

E tu questo lo sai, mia bella amica; 

sai come in breve a consolarmi appresi. 

Lina cui poco detti e molto chiesi 

penso, e rinnovo la querela antica.

«Saperti amante e non poterti avere, 

star lontano da te quando in cor m’ardi, 

aver la lingua e non poter parlare,

udir quest’acqua e non chinarsi a bere, 

correre in riga quando a lenti e tardi 

passi vorrei pensosamente andare».


4

Sei come alla mia sete acqua che spanda 

la sua frescura per un prato erboso; 

come giungere alfine ove un boscoso 

colle il limite segna della landa.

E nessun dio la sua nuvola manda 

a liberarci dal sol spaventoso. 

Senza canti si va, senza riposo, 

come pecore. Ed una non si sbanda.

E il piede dove posa in fuga mette 

voli d’insetti giú per la campagna. 

Forse è il flagello delle cavallette.

Sempre del gregge piú si obliqua il passo; 

e d’un tamburo il suon lugubre e basso 

pare un’epidemia che ci accompagni.


5

Ecco: è finito il polveroso piano. 

L’erta che il tedio senza fine allunga, 

la tappa dove mai par non si giunga 

dietro lasciammo e il culmine lontano.

Torna ogni aspetto a farsi cristiano; 

che se la fame, la fatica è lunga, 

né cosa v’ha che non ti gravi o punga, 

ch’abbia buono il sapor, l’odore sano,

c’è la musica; e questa alzi sonori 

squilli, onde meglio al fantaccino il getto 

d’acqua avvicini e d’anice insapori.

Dalle spalle gli tolga il maledetto 

peso, che basta ad un prodigio tanto 

poche trombe accordate a un pueril canto.


6

E ti racconterò, quando lontani 

saranno i giorni che n’ero malato, 

tutti i mostri di cui m’ha liberato 

l’anima il sol che m’arrossò le mani.

Dirò: Per monti e polverosi piani 

sotto quali mai pesi ho faticato! 

Credevo non tornare e son tornato. 

Sono tornato per partir domani.

Per mio diletto andrò di monte in valle. 

Zaino mai piú mi graverà le spalle. 

O Signor mio, non è orribile questo?

Foglia caduta cui non torna il verde, 

nello spazio e nel tempo ogni mio gesto, 

ogni fatica mia, ecco, si perde.


7

Si perde profondando entro un uguale 

buio. Di tutta la pena sofferta 

l’accesa faccia emergerà, l’aperta 

bocca, il fiero accennar d’un caporale.

Fin che già vecchio, nell’ultimo male, 

della febbre alla tetra luce incerta, 

andrò salendo una terribil’erta, 

per scendere di corsa un bel viale.

Giacerò nello sfatto letto, e fuoco, 

farò fuoco sui monti nell’aurora 

coi fantaccini del tempo d’allora.

Sfuggiranno tra il verde, curvi un poco. 

Io nel delirio qualche nome ancora 

ricorderò, qualche guerresco gioco.




A un ufficiale 


Quando il branco che a lei come al nemico 

guarda, ove meno esso vorrebbe guida, 

pur come non l’udisse ognor con grida 

sconce ostentare i putri umor che suda,

non vede mai la sua sciabola nuda 

mutarsi in un baston da pecoraio? 

Muovere sotto un soldatesco saio 

le forme del progenitore antico?

Equine gambe, coscie di possente 

mulo io scopro; mentre in lei vedere 

so uno svelto, un sagace levriere.

Assetato non beve, di sua gente 

guarda l’urto coi verdi occhi crudeli, 

pallido sotto arroventati cieli.




Ordine sparso 


1

Se sparando mi appiatto entro il profondo 

bosco, o sfuggo di corsa ove il sentiero 

s’apre, è un gioco bellissimo che invero 

la superficie m’innova del mondo.

Pensa: È un cespuglio, è un ciottolo rotondo 

che nascondere deve il corpo intero. 

Quel che piú pesa diventa leggero, 

dico il soldato col suo grave pondo.

Il volo che nel grano entra e poi scatta, 

la pecora ricorda che i ginocchi 

piega, indi pare che tutta s’abbatta.

E vedono il terreno oggi i miei occhi 

come artista non mai, credo, lo scorse. 

Cosí le bestie lo vedono forse.


2

Le bestie per cui esso è casa, è letto, 

è talamo, è podere, è mensa, è tutto. 

Vi godono la vita, ogni suo frutto, 

vi dànno e vi ricevono la morte.

Or, come vuole la mia bella sorte, 

non la sola bellezza al paesaggio 

chiedo, quanto una siepe od un selvaggio 

tronco, che mi nasconda il capo e il petto.

Né le cose d’intorno a me piú tante 

dànno malinconie dolci e complesse. 

Sí mi domando: per colpire ov’esse

stanno, come porrei del mio fucile

l’alzo, col sol che piú le fa vicine,

con l’ombra che allontana uomini e piante?




Bersaglio 


Del mare sulle iridescenti arene, 

dove in trincee si ammucchiano, mi getto; 

e con una repressa ansia il grilletto 

premo. Va la terribile frustata

e una sagoma cade. Immaginata 

non ho in essa una piú bella che buona, 

non una testa che porti corona, 

non il nemico che piú mai non viene.

Se qui l’occhio non falla e il colpo è certo, 

egli è che nel bersaglio ognor figuro 

l’orrore che i miei occhi hanno sofferto.

Tutto che di deforme hanno veduto, 

di troppo ebraico, di troppo panciuto, 

di troppo lamentosamente impuro.




La ginnastica del fucile 


Di ben tutta la testa sovra quanti 

uomini han qui mi vedo soverchiare; 

e le braccia con l’arma alto levare 

devo, ad un cenno, o sospingerle avanti.

Risento in me qualcosa dei giganti, 

che la scalata al ciel vollero dare, 

sembrami ad ogni gesto provocare 

Iddio, che del suo fulmine mi schianti.

Sempre mi disse tutte grandi e belle 

cose il vedere innanzi a me su quelle 

teste, cui tutte regola una legge.

Mi dice: tu non sei certo del gregge. 

Sí che lo zaino che sega le ascelle 

la schiena piú dirittamente regge.




Dopo il silenzio 


Mentre il compagno lamentosamente 

dorme; e il sonno, affannoso anche, gli giova, 

l’insonnia una stanchezza in me rinnova, 

che l’orgoglio mi fa quasi piacente.

Meraviglia non è se la mia mente 

veglia, ed il sonno non sempre ritrova. 

Questa che giace e ronfia è gente nuova. 

Io sono vecchio, paurosamente.

Esistere da tanti anni mi sembra, 

che forse con Abramo ho trasmigrato. 

Forse fui Faust, e Margherita ho amato.

Qui coi coscritti oggi stancai le membra. 

Ma non vissi con altri uomini e dèi? 

Non videro ogni tempo gli occhi miei?




Il capitano 


Se piú non posso senza lei pensare 

rea soldatesca ai piedi della croce, 

cosí chiara campana è la sua voce 

che un giorno soffrirò di non udirla.

Fra questi che non san che maledirla 

se a volte resto a quella voce sordo, 

è che a rendere il gran volto l’accordo 

cerco che ancor non saprei qui fermare.

Sol quando a sera andarmene soletto 

potrò, piú non temendo l’importuna 

tromba, che chiama: Picchetto, picchetto!;

mi verrà fatto di fermare in una

strofa, in un verso, quel suo aspetto un poco

di Farinata... Ma ben piú che il fuoco


dell’Eterno la cruccia: una fratina 

gente dai volti ebeti o cagnazzi. 

Davanti a quei noiosi vecchi pazzi 

star sull’attenti peggio di un coscritto!

Mai un’ardita impresa, un bel delitto. 

Solo la pace, solo la tempesta 

che brontola e non scoppia, solo questa 

parodia della gran carneficina.

Uno che a saccheggiare in grande è nato, 

vederlo qui, che ad aggravarli spia 

i fantaccini della compagnia!

Oh, tanto il suo destino è dei piú avversi, 

che darei, per saperla liberato, 

se non tutti, metà di questi versi.




Nella prigione 


Due compagni con me la stessa pena 

soffrono, come belve prese al laccio. 

Io gli insetti che il pasto alla mia vena 

si servono, e i pensier molesti scaccio.

«Se tu sapessi la vita che faccio! 

Non la farebbe un cane alla catena. 

Bere l’acqua e dormir sul tavolaccio 

nelle tredici celle della pena».

Cosí l’uno; e nel sonno si sprofonda. 

Una canzone ell’è che carcerato 

apprese, prima di venir soldato.

L’altro pur esso sull’opposta sponda 

dorme, ed i sogni suoi non sembran buoni. 

Io penso Cristo in mezzo ai due ladroni.




In cortile 


In cortile quei due stavan soletti. 

Era l’alba con venti umidi e freschi. 

Mi piaceva guardar sui fanciulleschi 

volti il cupo turchino dei berretti;

quando l’un l’altro, dopo due sgambetti, 

fece presentat’arm colla ramazza. 

Seguí una lotta ad una corsa pazza, 

colle schiene cozzarono e coi petti.

Mi videro, e Dio sa quale capriccio

sospinse a me quei due giovani cani.

Con molti «Te la sgugni» e «Me la spiccio»,

motteggiando, mi presero le mani. 

Ed io sorrisi, ché ai piccoli snelli 

corpi, agli atti parevano gemelli.




La fanfara 


Quando una canzonetta od una danza 

dona il cerchio degli aspri sonatori, 

ciascuno ha in vista dei rovesciatori 

di Gerico l’orgoglio e l’esultanza.

Stuonano, questo sí, con abbastanza 

grazia, e con grazia dimenano i fianchi, 

gonfian le gote, soffiano in già stanchi 

corpi voglie, a cui cedono, di danza.

Ecco: alle coppie la borraccia sbatte 

sulle natiche, e il suol cosí è calpesto 

che nulla di piú duro mai lo batte.

Oh quante volte un fratello pittore 

ho invocato, un pittore del grottesco, 

che unisse alle mie sillabe il colore!




Soldato alla prigione 


Il granchio che le membra in sé ritira 

assomigliava sull’attenti, muto. 

L’altro, che intentamente in lui l’acuto 

sguardo figgeva, parlò di prigione.

Ed il giovane entrò nella prigione 

senza un lamento, senza un motto arguto. 

Portò la destra al berretto puntuto, 

volse le spalle, e non le alzò nell’ira.

Alle piú dissetanti arie ben uso 

entrò da sé dove piú entrar gli duole, 

dove non c’è che puzzo di rinchiuso.

Egli che tante vomitò parole 

vane, d’intollerabile fetore, 

porse il saluto al suo giudicatore.


Ma quando fu dove di dosso tolto 

si vide il meglio; qui lasciato a segno 

che sentissero solo il duro legno 

del tavolaccio le sue povere ossa;

che inutilmente ebbe la porta scossa, 

e compagni trovò per querelarsi, 

prima lo udimmo al cane assomigliarsi, 

poi dalla rabbia illividiva in volto.

Da quel volto, da quelli atti spirava, 

giungendo con freschezze a me d’aurora, 

un non so che di fanciullesco ancora.

Non per il letto (e invero lo creava 

tale la mamma, da sentirla appena 

una bastonatura sulla schiena);


ma che un uomo, non Dio, non un temuto 

morbo gli desse un sí molesto affanno; 

tenesse lui, lui che già un mese e un anno 

portava zaino e faceva il saluto,

come un bambino a ripensare il danno 

fatto, e il duro castigo ricevuto; 

per traversino il berretto puntuto, 

per materasso il cappotto di panno!

Ed io che volli un poco di sereno 

dentro l’animo suo, gli dissi: «Credi, 

qui non c’è tutto il male che tu vedi;

che quando stai nella prigione, almeno 

non ti mettono in mano la ramazza, 

e puoi pensare in pace alla ragazza».


Poco ascoltò. Già ridere l’udiva, 

anche l’usata canzone intonare. 

Quando si sciolse fu per bestemmiare 

chi aprire gli poteva e non gli apriva;

chi di uscire gli tolse ove alla riva 

del mare un’osteria consola d’unti 

acri e di donna i marinai, che giunti 

sono Dio sa da che lontana riva!

Poi, quando fu da un lungo sonno preso 

– sempre mi piacque in luoghi aperti o bui 

spiar, non visto, i cupi sonni altrui –

vidi sulla sua faccia un ciglio leso; 

la faccia non ad un’aurora, a quella 

somigliare di un morto alla Cappella.




Consolazione 


È stata piú che non pensassi in mia 

vita la guerra finta e fragorosa. 

Sparò sull’assordante artiglieria

l’onnipotente fanteria fangosa.

Ora, in cortile, a sí diversa cosa 

ciascuno attende. Ora si muta in vile 

spazzino il fante. Ora non piú il fucile, 

ma la ramazza ha in pugno. E cosí sia.

Con tanto piú diletto e piú sincero 

animo andrò nella mia chiusa stanza 

tessendo e ritessendo il mio pensiero.

Su tappeti di porpora la danza 

godrò leggera, bacerò il bel viso 

di lei, nelle cui braccia è paradiso.




Scherzo 


Or da quanto gli orecchi odono e dalla 

vista nuova letizia a me si svela; 

e il sonno ancora i chiari occhi mi vela, 

che ho dormito sul fieno entro una stalla.

Uno che col compagno ansante balla 

in mezzo al campo, in tenuta di tela, 

e pur anche ballando si querela 

che tutto dí gli fan far zaino in spalla,

ferma a un tratto e mi grida: «Son borghese!» 

Poi mi racconta che al nostro paese 

il vino è buono e le donne son sane.

Qui dove l’han mandato le puttane 

ce l’hanno tutte. E se a tacer persisto 

mi dice che assomiglio a Gesú Cristo.




Di sentinella alla bandiera 


Nella mia casa, da me solo amata, 

in una luce a me di visione, 

c’era un’oleografia: Napoleone 

Primo e la sentinella addormentata.

Là si vedeva sull’insanguinata 

neve dormire quel soldato vile, 

vigilare per lui, col suo fucile, 

l’Imperatore della Grande Armata.

È notte, e la ricordo io dopo tanto.

Arde un lumino; in guardia ho la bandiera

che sventolò su San Martino a sera.

E mi par di seder proprio in quel canto 

di mia casa, fanciullo, in quelle ore 

lunghe, a sognare in me un conquistatore.




Marcia notturna 


Con le lanterne del tempo di guerra 

si procede, e la luna ha un tenue velo, 

tutte le chiare stelle ardono in cielo. 

Oh, spegnete quei lumi, uomini, in terra!

Presso, nel mare, quell’argenteo gelo 

trema, e ci segue. Ebbri di sonno, stanchi 

di querelarsi e di cantare, i fanti 

tornano sotto un luminoso cielo,

lungo il golfo che a me ricorda quello 

dove nacqui, che a notte ha il tuo sorriso 

malinconico, l’aria del tuo viso.

Cosí che intorno io mi ritrovi il bello 

lasciato quando qui venni a marciare, 

e i sonni dell’infanzia a ritrovare.




Di ronda alla spiaggia 


Annotta. Nella piazza i trombettieri 

uscirono a suonar la ritirata. 

La consegna io l’ho, credo, scordata; 

che tendono a ben altro i miei pensieri.

E il mare solitario i miei pensieri 

culla con le sue lunghe onde grigiastre, 

dove il tramonto scivolò con piastre 

d’oro, rifulse in liquidi sentieri.

Questo a lungo ammirai, ben che al soldato 

piú chiudere che aprire gli occhi alletta, 

che ha i piedi infermi ed il cuore malato.

E seggo, e sulla sabbia umida e netta 

un nome da infiniti anni obliato 

scrive la punta della baionetta.




L’arboscello 


Oggi il tempo è di pioggia.

Sembra il giorno una sera,

sembra la primavera

un autunno, ed un gran vento devasta

l’arboscello che sta – e non pare – saldo;

par tra le piante un giovanetto alto

troppo per la sua troppo verde età.

Tu lo guardi. Hai pietà

forse di tutti quei candidi fiori

che la bora gli toglie; e sono frutta,

sono dolci conserve

per l’inverno quei fiori che tra l’erbe

cadono. E se ne duole la tua vasta

maternità.




A mia moglie 


Tu sei come una giovane,

una bianca pollastra.

Le si arruffano al vento

le piume, il collo china

per bere, e in terra raspa;

ma, nell’andare, ha il lento

tuo passo di regina,

ed incede sull’erba

pettoruta e superba.

È migliore del maschio.

È come sono tutte

le femmine di tutti

i sereni animali

che avvicinano a Dio.

Cosí se l’occhio, se il giudizio mio

non m’inganna, fra queste hai le tue uguali,

e in nessun’altra donna.

Quando la sera assonna

le gallinelle,

mettono voci che ricordan quelle,

dolcissime, onde a volte dei tuoi mali

ti quereli, e non sai

che la tua voce ha la soave e triste

musica dei pollai.

Tu sei come una gravida 

giovenca;

libera ancora e senza 

gravezza, anzi festosa; 

che, se la lisci, il collo 

volge, ove tinge un rosa 

tenero la sua carne. 

Se l’incontri e muggire

l’odi, tanto è quel suono 

lamentoso, che l’erba 

strappi, per farle un dono. 

È cosí che il mio dono 

t’offro quando sei triste.

Tu sei come una lunga 

cagna, che sempre tanta 

dolcezza ha negli occhi, 

e ferocia nel cuore. 

Ai tuoi piedi una santa 

sembra, che d’un fervore 

indomabile arda, 

e cosí ti riguarda 

come il suo Dio e Signore. 

Quando in casa o per via 

segue, a chi solo tenti 

avvicinarsi, i denti 

candidissimi scopre. 

Ed il suo amore soffre 

di gelosia.

Tu sei come la pavida 

coniglia. Entro l’angusta 

gabbia ritta al vederti 

s’alza,

e verso te gli orecchi 

alti protende e fermi; 

che la crusca e i radicchi 

tu le porti, di cui 

priva in sé si rannicchia, 

cerca gli angoli bui. 

Chi potrebbe quel cibo 

ritoglierle? chi il pelo 

che si strappa di dosso, 

per aggiungerlo al nido 

dove poi partorire? 

Chi mai farti soffrire?

Tu sei come la rondine

che torna in primavera.

Ma in autunno riparte;

e tu non hai quest’arte.

Tu questo hai della rondine:

le movenze leggere;

questo che a me, che mi sentiva ed era

vecchio, annunciavi un’altra primavera.

Tu sei come la provvida 

formica. Di lei, quando 

escono alla campagna, 

parla al bimbo la nonna 

che l’accompagna. 

E cosí nella pecchia 

ti ritrovo, ed in tutte 

le femmine di tutti 

i sereni animali 

che avvicinano a Dio; 

e in nessun’altra donna.




L’insonnia in una notte d’estate 


Mi sono messo a giacere

sotto le stelle,

una di quelle

notti che fanno dell’insonnia tetra

un religioso piacere.

Il mio guanciale è una pietra.

Siede, a due passi, un cane.

Siede immobile e guarda

sempre un punto, lontano.

Sembra quasi che pensi,

che sia degno di un rito,

che nel suo corpo passino i silenzi

dell’infinito.

Di sotto un cielo cosí turchino,

in una notte cosí stellata,

Giacobbe sognò la scalata

d’angeli di tra il cielo e il suo guanciale,

ch’era una pietra.

In stelle innumerevoli il fanciullo

contava la progenie sua a venire;

in quel paese ove fuggiva l’ire

del piú forte Esaú,

un impero incrollabile nel fiore

della ricchezza per i figli suoi;

e l’incubo del sogno era il Signore

che lottava con lui.




La capra 


Ho parlato a una capra. 

Era sola sul prato, era legata. 

Sazia d’erba, bagnata

dalla pioggia, belava.

Quell’uguale belato era fraterno 

al mio dolore. Ed io risposi, prima 

per celia, poi perché il dolore è eterno, 

ha una voce e non varia. 

Questa voce sentiva 

gemere in una capra solitaria.

In una capra dal viso semita 

sentiva querelarsi ogni altro male, 

ogni altra vita.




A mia figlia 


Mio tenero germoglio, 

che non amo perché sulla mia pianta 

sei rifiorita, ma perché sei tanto 

debole e amore ti ha concesso a me; 

o mia figliola, tu non sei dei sogni 

miei la speranza; e non piú che per ogni 

altro germoglio è il mio amore per te.

La mia vita, mia cara

bambina,

è l’erta solitaria, l’erta chiusa

dal muricciolo,

dove al tramonto solo

siedo, a celati miei pensieri in vista.

Se tu non vivi a quei pensieri in cima,

pur nel tuo mondo li fai divagare;

e mi piace da presso riguardare

la tua conquista.

Ti conquisti la casa a poco a poco,

e il cuore della tua selvaggia mamma.

Come la vedi, di gioia s’infiamma

la tua guancia, ed a lei corri dal gioco.

Ti accoglie in grembo una sí bella e pia

mamma, e ti gode. E il vecchio amore oblia.




Intermezzo a Lina 


O di tutte le donne la piú pia,

rosa d’ogni bontà,

che a Carmen assomigli, a Carmençita,

e tutta hai rivestita

di fascini la tua malinconia,

e di civetteria la santità;

o regina, o signora,

la cui grazia fu ognora, ognor sarà

diversa oggi da ieri,

penso quando non eri

meno bella se pure a mezzo inverno

un tuo purpureo scialle

ti avvolgeva le spalle

infreddolite, il profilo fraterno

ai miei pensieri migliori

fino dal giorno che t’ho conosciuta.

Da quel giorno t’ho avuta

sempre vicina, ho sempre lavorato

intorno all’amorosa anima tua;

e d’un’antica angoscia non piú sua

l’ho liberata.

Dove andò la tua vita

di fanciulla? le prime ore pensose?

quelle baruffe quasi sanguinose

con l’amata sorella?

Poi la baciavi, la chiamavi bella,

le piangevi sul petto,

con un cupido affetto,

con una straziante tenerezza;

che percossa si spezza

l’anima tua, ma non si piega. E questo,

questo ancora io so;

io che presso di te forse ho fornita

l’opera mia,

o di tutte le donne la piú pia,

rosa d’ogni bontà,

che la gioia d’amore che m’hai data

l’ho pagata accrescendo alla tua vita

la libertà.

Dove andò la tua vita

di ragazza? Cucivi, un poco inferma,

nella tua cella, o rumoroso intorno,

come una camerata di caserma,

t’era il laboratorio,

pieno di canti e di malinconia.

Tu piangevi in segreto; a volte ai canti

t’accordavi dell’altre prigioniere.

Ma nei giorni di festa, nelle sere

d’estate, quando uscivi in compagnia,

v’era ben chi aspettava te, te sola;

e tra i fiori minori eri la rosa,

rosa di purità.

Ora i tuoi occhi come dolci dardi

figgi in me e m’accarezzi,

e di tutti i tuoi vezzi

sorridente mi guardi.

Ed io penso che il fuoco di cui ardi

sí dolcemente penetra la vita

nostra, e una preda facile ne fa;

che a Carmen assomigli, a Carmençita,

rosa di voluttà.




L’autunno 


Che succede di te, della tua vita, 

mio solo amico, mia pallida sposa? 

La tua bellezza si fa dolorosa, 

e piú non assomigli a Carmençita.

Dici: «È l’autunno, è la stagione in vista 

sí ridente, che fa male al mio cuore». 

Dici – e ad un noto incanto mi conquista 

la tua voce –: «Non vedi là in giardino 

quell’albero che tutto ancor non muore, 

dove ogni foglia che resta è un rubino? 

Per una donna, amico mio, che schianto 

l’autunno! Ad ogni suo ritorno sai 

che sempre, fino da bambina, ho pianto». 

Altro non dici a chi ti vive accanto, 

a chi vive di te, del tuo dolore 

che gli ascondi; e si chiede se piú mai,

anima, e dove e a che, rifiorirai.




Il torrente 


Tu cosí avventuroso nel mio mito, 

cosí povero sei fra le tue sponde. 

Non hai, ch’io veda, margine fiorito. 

Dove ristagni scopri cose immonde.

Pur, se ti guardo, il cor d’ansia mi stringi,

o torrentello.

Tutto il tuo corso è quello

del mio pensiero, che tu risospingi

alle origini, a tutto il forte e il bello

che in te ammiravo; e se ripenso i grossi

fiumi, l’incontro con l’avverso mare,

quest’acqua onde tu appena i piedi arrossi

nudi a una lavandaia,

la piú pericolosa e la piú gaia,

con isole e cascate, ancor m’appare;

e il poggio da cui scendi è una montagna.

Sulla tua sponda lastricata l’erba 

cresceva, e cresce nel ricordo sempre; 

sempre è d’intorno a te sabato sera; 

sempre ad un bimbo la sua madre austera 

rammenta che quest’acqua è fuggitiva, 

che non ritrova piú la sua sorgente, 

né la sua riva; sempre l’ancor bella 

donna si attrista, e cerca la sua mano 

il fanciulletto, che ascoltò uno strano 

confronto tra la vita nostra e quella 

della corrente.




Trieste 


Ho attraversata tutta la città.

Poi ho salita un’erta,

popolosa in principio, in là deserta,

chiusa da un muricciolo:

un cantuccio in cui solo

siedo; e mi pare che dove esso termina

termini la città.

Trieste ha una scontrosa

grazia. Se piace,

è come un ragazzaccio aspro e vorace,

con gli occhi azzurri e mani troppo grandi

per regalare un fiore;

come un amore

con gelosia.

Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via

scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,

o alla collina cui, sulla sassosa

cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa.

Intorno

circola ad ogni cosa

un’aria strana, un’aria tormentosa,

l’aria natia.

La mia città che in ogni parte è viva, 

ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita 

pensosa e schiva.




Verso casa 


Anima, se ti pare che abbastanza 

vagabondammo per giungere a sera, 

vogliamo entrare nella nostra stanza, 

chiuderla, e farci un po’ di primavera?

Trieste, nova città,

che tiene d’una maschia adolescenza,

che di tra il mare e i duri colli senza

forma e misura crebbe;

dove l’arte o non ebbe

ozi, o, se c’è, c’è in cuore

degli abitanti, in questo suo colore

di giovinezza, in questo vario moto;

tutta esplorammo, fino al piú remoto

suo cantuccio, la piú strana città.

Ora che con la sera anche si fa

vivo il bisogno di tornare in noi,

vogliamo entrare ove con tanto amore

sempre ti ascolto, ove tu al bene puoi

volgere un lungo errore?

Della piú assidua pena,

della miseria piú dura e nascosta,

anima, noi faremo oggi un poema.




Città vecchia 


Spesso, per ritornare alla mia casa 

prendo un’oscura via di città vecchia. 

Giallo in qualche pozzanghera si specchia 

qualche fanale, e affollata è la strada.

Qui tra la gente che viene che va

dall’osteria alla casa o al lupanare,

dove son merci ed uomini il detrito

di un gran porto di mare,

io ritrovo, passando, l’infinito

nell’umiltà.

Qui prostituta e marinaio, il vecchio

che bestemmia, la femmina che bega,

il dragone che siede alla bottega

del friggitore,

la tumultuante giovane impazzita

d’amore,

sono tutte creature della vita

e del dolore;

s’agita in esse, come in me, il Signore.

Qui degli umili sento in compagnia

il mio pensiero farsi

piú puro dove piú turpe è la via.




L’appassionata 


Tu hai come il dono della santità. 

Nacque con te, ti segue ove ti porta 

la passione,

fa dei peccati tuoi opere buone, 

d’ogni giudizio ti rimanda assolta.

Questa grazia che a te fors’anco è ignota

è il nostro amore, è la tua verità.

Quanto riguardi tosto a te si vota,

offre a te la sua vita.

Dell’infetta ferita

poi sanguini cosí dentro il tuo cuore,

che si chiede perdono a te, o devota,

o appassionata, o pura

sempre quanto la piú giusta creatura;

che perderti volessi non lo puoi,

di cui s’amano i falli perché tuoi.

La tua voce che a me giunge piú amara 

e piú impregnata dell’intima ambascia, 

si ascolta come una musica bassa, 

come una lenta musica di chiesa. 

Nell’anima che tu, innocente, hai lesa 

strana dolcezza lascia, 

pure al ricordo, la tua voce amara.




La bugiarda 


Perché arrossire? Io credo 

pure alle tue bugie. 

Hanno piú religione delle mie 

verità; che se a volte in esse io vedo 

ghiacce bevande di ardente colore 

che consolano e crescono la sete; 

i poeti, mio amore,

i gloriosi poeti e i vecchi saggi,

e gli eroi che tornavano da mète

lontane, dopo immortali viaggi,

e, forse, in sue secrete

leggi, nella giustizia sua l’Eterno,

sentono come me che non discerno

fra il pensato ed il vero.

E chi sa che a sua immagine il pensiero

non muti fino le cose passate,

quando con cuore e con labbra agitate

dici la tua menzogna, e con l’ardore

di chi chiede ai suoi santi suoi perdoni,

che grazia impetra con sante orazioni.

Or tu dunque rallegrati. Io credo

solo alle tue bugie.

La tua voce ha le vie

del mio cuore; né in te ricerco traccia

di colpa; anzi piú pura

ti vedono nel male gli occhi miei.

Altro dirti poss’io se da natura

fatta cosí femminilmente sei?




La gatta 


La tua gattina è diventata magra. 

Altro male non è il suo che d’amore: 

male che alle tue cure la consacra.

Non provi un’accorata tenerezza?

Non la senti vibrare come un cuore

sotto alla tua carezza?

Ai miei occhi è perfetta

come te questa tua selvaggia gatta,

ma come te ragazza

e innamorata, che sempre cercavi,

che senza pace qua e là t’aggiravi,

che tutti dicevano: «È pazza».

È come te ragazza.




La fanciulla 


Chi vede te vede una primavera, 

uno strano arboscello, che non reca 

fiori, ma frutta.

Un giorno ti tagliavano i capelli.

Stavi, fra il tuo carnefice e la mamma,

stavi ritta e proterva;

quasi un aspro garzon sotto la verga,

a cui le guance ira e vergogna infiamma,

luccicavano appena i tuoi grandi occhi;

e credo ti tremassero i ginocchi

dalla pena che avevi.

Poi con quale fierezza raccoglievi

quel tesoro perduto,

quel magnifico tuo bene caduto,

i tuoi lunghi capelli.

Io ti porsi uno specchio. Entro la bruna 

chioma vi tondeggiava il tuo bel volto 

come un polposo frutto.




Carmen 


Torna la mia disperazione a te. 

Dopo aver tanto errato, oggi il mio amore 

torna al tuo fiero mutevole ardore, 

piú nulla chiede che la tua onestà.

In queste lunghe giornate d’affanno, 

che senza lotta e senza pace vanno, 

e senza la tua gaia crudeltà; 

con la mia solitaria anima invisa, 

con l’immagine tua dovunque incisa, 

ho sognato pur io d’averti uccisa, 

per l’ebbrezza di piangere su te.

Incolpabile amica, austera figlia 

d’amore, se la vita oggi t’esiglia, 

con la musica ancora vieni a me. 

Geloso sono non di don José, 

non d’Escamillo; di chi prima un canto 

sciolse alla tua purezza ed al tuo santo 

coraggio incontro alla tua verità.

Né tu forse da me vivi lontana, 

da me che all’amor tuo faccio ritorno, 

e non cerco a Siviglia il tuo soggiorno. 

Solo vagavo il mattino di un giorno 

di festa, e tra la folla oscura e vana 

tu m’apparivi in una popolana 

di Firenze; la tua mano era stesa 

a sollevar le tende d’una chiesa, 

le gialle e rosse tende sull’entrata.

Parevi stanca, parevi ammalata,

ma t’ho riconosciuta io che t’ho amata.

Io che a fatica ho rattenuto un grido, 

mi sono meritato un tuo sorriso.




Dopo la tristezza 


Questo pane ha il sapore d’un ricordo,

mangiato in questa povera osteria,

dov’è piú abbandonato e ingombro il porto.

E della birra mi godo l’amaro,

seduto del ritorno a mezza via,

in faccia ai monti annuvolati e al faro.

L’anima mia che una sua pena ha vinta,

con occhi nuovi nell’antica sera

guarda un pilota con la moglie incinta;

e un bastimento, di che il vecchio legno

luccica al sole, e con la ciminiera

lunga quanto I due alberi, è un disegno

fanciullesco, che ho fatto or son vent’anni.

E chi mi avrebbe detto la mia vita

cosí bella, con tanti dolci affanni,

e tanta beatitudine romita!




Tre vie 


C’è a Trieste una via dove mi specchio 

nei lunghi giorni di chiusa tristezza: 

si chiama Via del Lazzaretto Vecchio. 

Tra case come ospizi antiche uguali, 

ha una nota, una sola, d’allegrezza: 

il mare in fondo alle sue laterali. 

Odorata di droghe e di catrame 

dai magazzini desolati a fronte, 

fa commercio di reti, di cordame 

per le navi: un negozio ha per insegna 

una bandiera; nell’interno, volte 

contro il passante, che raro le degna 

d’uno sguardo, coi volti esangui e proni 

sui colori di tutte le nazioni, 

le lavoranti scontano la pena 

della vita: innocenti prigioniere 

cuciono tetre le allegre bandiere.

A Trieste ove son tristezze molte,

e bellezze di cielo e di contrada,

c’è un’erta che si chiama Via del Monte.

Incomincia con una sinagoga,

e termina ad un chiostro; a mezza strada

ha una cappella; indi la nera foga

della vita scoprire puoi da un prato,

e il mare con le navi e il promontorio,

e la folla e le tende del mercato.

Pure, a fianco dell’erta, è un camposanto

abbandonato, ove nessun mortorio

entra, non si sotterra piú, per quanto

io mi ricordi: il vecchio cimitero

degli ebrei, cosí caro al mio pensiero,

se vi penso i miei vecchi, dopo tanto

penare e mercatare, là sepolti, 

simili tutti d’animo e di volti.

Via del Monte è la via dei santi affetti, 

ma la via della gioia e dell’amore 

è sempre Via Domenico Rossetti. 

Questa verde contrada suburbana, 

che perde dí per dí del suo colore, 

che è sempre piú città, meno campagna, 

serba il fascino ancora dei suoi belli 

anni, delle sue prime ville sperse, 

dei suoi radi filari d’alberelli. 

Chi la passeggia in queste ultime sere 

d’estate, quando tutte sono aperte 

le finestre, e ciascuna è un belvedere, 

dove agucchiando o leggendo si aspetta, 

pensa che forse qui la sua diletta 

rifiorirebbe all’antico piacere 

di vivere, di amare lui, lui solo; 

e a piú rosea salute il suo figliolo.




Via della Pietà 


Accennava all’aspetto una sventura, 

sí lunga e stretta come una barella. 

Hanno abbattute le sue vecchie mura, 

e di qualche ippocàstano si abbella.

Ma ancor di sé l’attrista l’ospedale, 

che qui le sue finestre apre e la porta, 

dove per visitar la gente morta 

preme il volgo perverso; e come fuori 

dei teatri carrozze in riga nera, 

sempre fermo ci vedo un funerale. 

Cerei sinistri odori 

escon dalla cappella; e se non posso 

rattristarmi, pensare il giorno estremo, 

l’eterno addio alle cose di cui temo 

perdere sola un’ora, è perché il rosso 

d’una cresta si muove fra un po’ d’erba, 

cresciuta lungo gli arboscelli in breve 

zolla: quel rosso in me speranza e fede 

ravviva, come in campo una bandiera.

La gallinella che ancor qui si duole, 

e raspa presso alla porta funesta, 

mi fa vedere dietro la sua cresta 

tutta una fattoria piena di sole.




Intorno ad una casa in costruzione 


I comignoli rosa e il cielo azzurro 

sono pur belli a riguardarsi. Intanto 

l’opera ferve che la casa accanto 

pose fra una partenza ed un ritorno 

di me, che se la guardo al novo giorno 

poi alla sera è in vista piú fornita. 

Dicono che nessuna, nuova o antica, 

come questa offrirà grato ricetto, 

in sua barbara mole, ai cittadini. 

Fino di Semiramide i giardini 

le ombreggeranno il tetto.

Or ti domando, anima mia, che abbozzi 

un sorriso che tu credi beffardo: 

nel tempo in cui molti artefici rozzi 

a ornar la brutta casa davan mano, 

fra partenze e ritorni, e sogni, e il vano 

sperare, a disperar subito poi, 

cosa che valga questa che riguardo 

solo ostilmente edificammo in noi? 

La tua risposta, io ben lo so, l’orgoglio 

ti detta quale da lui prego e voglio.

I comignoli rosa e il cielo azzurro 

ed il mio verso, valgono la casa, 

che del suo sfarzo deturpa la strada 

soleggiata, con qualche albero in fiore, 

popolosa ogni giorno e ingombra piú, 

dov’era cosí dolce far l’amore 

in gioventú.




L’ora nostra 


Sai un’ora del giorno che piú bella 

sia della sera? tanto 

piú bella e meno amata? È quella 

che di poco i suoi sacri ozi precede; 

l’ora che intensa è l’opera, e si vede 

la gente mareggiare nelle strade; 

sulle moli quadrate delle case 

una luna sfumata, una che appena 

discerni nell’aria serena.

È l’ora che lasciavi la campagna 

per goderti la tua cara città, 

dal golfo luminoso alla montagna 

varia d’aspetti in sua bella unità; 

l’ora che la mia vita in piena va 

come un fiume al suo mare; 

e il mio pensiero, il lesto camminare 

della folla, l’artiere in cima all’alta 

scala, il fanciullo che correndo salta 

sul carro fragoroso, tutto appare 

fermo nell’atto, tutto questo andare 

ha una parvenza d’immobilità.

È l’ora grande, l’ora che accompagna 

meglio la nostra vendemmiante età.




Il giovanetto 


A mezza estate su noi si riversa 

la bora, e soffia nell’aperto prato 

dove giochi, ed il florido incarnato 

del viso e le tue nude gambe sferza.

Tu stai sul prato come un dio in esiglio

sta sulla terra. E, chi ti ammiri, l’occhio

non abbassi, lo guardi con fierezza,

come un nemico, in volto;

mentre al compagno nella finta guerra

parli sommesso e ridere t’ascolto.

La guerra è intorno ad una palla enorme,

che si lancia col piede;

ed il rado passante, ecco, ti vede

svolgere in essa le tue snelle forme.

Scende intanto la sera, e tinge in rosa

le nubi, e a quanto del tuo corpo è ignudo

fugacemente intona il suo colore.

La sua bellezza con la tua si sposa; 

e una malinconia quasi amorosa 

mi distilla nel cuore.




Il poeta 


Il poeta ha le sue giornate

contate,

come tutti gli uomini; ma quanto,

quanto variate!

L’ore del giorno e le quattro stagioni,

un po’ meno di sole o piú di vento,

sono lo svago e l’accompagnamento

sempre diverso per le sue passioni

sempre le stesse; ed il tempo che fa

quando si leva, è il grande avvenimento

del giorno, la sua gioia appena desto.

Sovra ogni aspetto lo rallegra questo

d’avverse luci, le belle giornate

movimentate

come la folla in una lunga istoria,

dove azzurro e tempesta poco dura,

e si alternano messi di sventura

e di vittoria.

Con un rosso di sera fa ritorno,

e con le nubi cangia di colore

la sua felicità,

se non cangia il suo cuore.

Il poeta ha le sue giornate

contate,

come tutti gli uomini; ma quanto,

quanto beate!




Il fanciullo 


Coi miei occhi non mai sazi di luce, 

tutto, nel letto, il lungo estivo giorno 

rivivo; e d’un fanciullo oggi è il ricordo 

che a non chiuderli ancora mi seduce.

Come d’un balzo arrovesciata preda, 

nell’ora che piú l’uomo affretta il passo, 

di sé ingombrava un angolo di via. 

Non cercava al suo gioco compagnia; 

ed il suo gioco era trarre dal sasso 

schegge e scintille a colpi di scalpello.

Io pensavo Alcibiade monello,

che in altro tempo e piú gentil contrada, 

non guarda se di lí altri lo scacci, 

non teme il carrettiere con la frusta 

alzata contro i suoi nudi polpacci; 

ma si getta bocconi nella strada, 

e ride, ed i cavalli fa impennare. 

Senza un grido la folla il suo daffare 

lascia, e par solo quel periglio veda.

Il bel fanciullo la sua gloria gusta.

Nel chiaro giorno, se ho vagato assai, 

poco rinvenni piú fraterno e grato 

d’un fanciullo, nei cui gesti ho ascoltato 

i miei pensieri reconditi e gai.




Il pomeriggio 


Negli aspetti di questo pomeriggio 

troppo bello, ho sofferto i primi fasti 

dell’autunno; la voce ammonitrice 

della stagione che i rimorsi arreca, 

ed il rimpianto al mal fatto misura.

Il cielo è azzurro come il primo cielo 

che Dio inarcava sulla terra nuova, 

e il mare, appena benedetto, è un liscio 

specchio all’azzurro di tutto quel cielo. 

Poche foglie sugli alberi hanno il verde 

dei vivaci acquarelli dei fanciulli, 

mostrano l’altre un rosso di passione. 

Casa e campagna, tutto il mondo è come 

creato or ora; e tanto bello attrista, 

tanto che agli occhi è soverchio, e non dura.

Chi dai suoi ozi si riposa, e ascolta, 

ode il monito grave, ode la voce 

che viene dalle cose e dal profondo; 

dalle prime speranze che ha deluse, 

da un bel principio che piú il fine oscura.




Il bel pensiero 


Avevo un bel pensiero, e l’ho perduto. 

Uno di quei pensieri che tra il sonno 

e la veglia consolano la casta 

adolescenza; e ben di rado poi 

fan ritorno fra noi.

Io perseguivo il mio pensiero come 

si persegue una bella creatura, 

che ne conduce ove a lei piace, ed ecco: 

perdi per sempre la sua leggiadria 

a una svolta di via.

Una voce profana, un importuno 

richiamo il bel pensiero in fuga han messo. 

Ora lo cerco in ciechi labirinti 

d’inferno, e so ch’esser non può lontano, 

ma che sperarlo è vano.




La moglie 


Quando triste rincaso e lei m’aspetta 

alla finestra, se la bella e cara 

moglie, ad un gesto, il mio male sospetta, 

se il disgusto mi legge, od altro, in faccia, 

tosto al mio collo le amorose braccia, 

come due serpi vigorose, getta; 

me solo accusa la sua voce amara.

«E cosí – dice – è cosí che mi torni.

Non un bacio per me, non un sorriso

per tua figlia; stai lí, muto, in disparte;

si direbbe, a vederti, che tu hai l’arte

di distruggerti. Ed io... guardami in viso,

guarda, se alle parole mie non credi,

questi solchi che v’ha lasciato il pianto.

Ero qui sola ad aspettarti; intanto

la nostra casa io l’ho rimessa, vedi?

come nel primo giorno.

Ma tu già non m’ascolti. Che passione,

e che rabbia mi fai!

Non s’ha il diritto, sai,

quando si vive con altre persone,

di tenere per sé le proprie pene;

bisogna raccontarle, farne parte

ai nostri cari che vivono in noi

e di noi».

«Quanto, quanto m’annoi»,

io le rispondo fra me stesso. E penso:

Come farà il mio angelo a capire

che non v’ha cosa al mondo che partire

con essa io non vorrei, tranne quest’una,

questa muta tristezza; e che i miei mali

sono miei, sono all’anima mia sola; 

non li cedo per moglie e per figliola, 

non ne faccio ai miei cari parti uguali.




Nuovi versi alla luna 


La luna si è nascosta fra le nubi 

di madreperla, 

dopo che in me, a vederla, 

vecchi fantasmi nacquero e follia.

La luna nel suo argento ha impresse sante

immagini: la vergine Maria

che il dolce figlio ha in grembo; ed ecco: il Cristo

diventa un guardinfante,

la vergine il ritratto d’una mia

ava, che, in altra gonna, vive ancora,

ed il mio cuore, io non so come, adora

con fedeltà, come un guerriero il vecchio

sovrano; e molto meno amo lo specchio

celeste, se mi riflette Maria.

La luna non mi pare come l’occhio

del sole, l’accecante occhio che tutto

vede, ma non discerne e non ricorda;

ella sa le presenti e le passate

cose, e per quelle che saranno porta

un finissimo intuito; ed anche ha un certo

fare, austero e materno,

ch’io la riguardo come il bimbo, tolta

del suo fallo la traccia,

scruta furtivo la marmorea faccia

della madre, la sua bocca che tace,

un sorriso indicibile che toglie

ogni sua pace.

La luna è uscita ignuda dalle nubi

di madreperla.

Affacciato a goderla,

penso che innamorata sia d’un barbaro;

penso una spiaggia ove al suo lume sbarcano

quelli eroi sanguinosi che l’infanzia

del mio cuore, e del mondo, ha tanto amato;

richiudo amareggiato

da lei, che vergognosi sentimenti

m’infligge di puerili eroiche imprese,

di guerre a vendicar l’amico intese,

di flotte naviganti a lumi spenti.




La malinconia amorosa 


Malinconia amorosa

del nostro cuore,

come una cura secreta o un fervore

solitario, piú sempre intima e cara;

per te un dolce pensiero ad un’amara

rimembranza si sposa;

discaccia il tedio che dentro ristagna,

e poi tutta la vita t’accompagna.

Malinconia amorosa

nel giovane che siede

dietro un banco, che vede

chine sulle sue stoffe le piú belle

donne della città; tormento oscuro

nel sognatore,

che, accendendosi già le prime stelle,

qualche lume per via,

sale pensoso di chi sa che amore

e che strazio la lunga erta sassosa

della collina,

dove le case con la chiesa in cima

paion balocchi; la città operosa

sfuma nell’orizzonte ancora acceso;

ed il suo orgoglio ingigantisce, leso

dalla vita, vicino alla follia.

Malinconia amorosa

della mia vita,

prima del cuore ed ultima ferita;

chi a cogliere i tuoi frutti

ama l’ombre calanti, i luoghi oscuri,

lento cammina, va rasente i muri,

non vede quello che vedono tutti,

e quello che nessuno vede adora.




Il fanciullo appassionato 


C’è un fanciullo che incontro nelle mie

passeggiate, un fanciullo un poco strano.

Ha qualcosa di me, di me lontano

nel tempo; un passo strascicato e molle

di bestia troppo in libertà lasciata;

la folla schiva entro le anguste vie,

ama le barche piene di cipolle

e di cappucci; tutto esplora, il nuovo

porto, la diga: ed oggi lo ritrovo,

fermo, la bella testina abbassata,

lo sguardo immobilmente a terra chino.

«Che mai sarà, bambino?»

Perché mai cosí intento? E che può dire 

solo a se stesso, un chiaro giorno, all’ombra 

d’una vela, ove già la riva è sgombra, 

questo indimenticabile monello? 

che può fargli piú niente altro vedere 

che il suo mondo, anche in vista impallidire 

come un appassionato, dargli un bello 

diverso che di giovane animale? 

Io, se in lui mi ricordo, ben mi pare 

che il suo cuore non debba ancor sapere 

quella che in ogni nostra cura è ascosa, 

malinconia amorosa.

Meglio in un lungo avventuroso sogno 

il suo ben corrucciato occhio s’interna. 

Anche gli è a noia la casa paterna, 

un carcere la scuola; e forse è nulla 

di tutto questo; è appena un’ombra vana 

che insegue, un indistinto ancor bisogno 

di esplorare piú addentro che la brulla

collina, e il porto, e lunghe vie remote; 

un bisogno onde presto si riscuote, 

sospettoso mi guarda, e si allontana 

con quel suo passo strascicato e molle 

delle bestie satolle.




Il molo 


Per me al mondo non v’ha un piú caro e fido 

luogo di questo. Dove mai piú solo 

mi sento e in buona compagnia che al molo 

San Carlo, e piú mi piace l’onda e il lido?

Vedo navi il cui nome è già un ricordo 

d’infanzia. Come allor torbidi e fiacchi 

– forse aspettando dell’imbarco l’ora – 

i garzoni s’aggirano; quei sacchi 

su quella tolda, quelle casse a bordo 

di quel veliero, eran principio un giorno 

di gran ricchezze, onde stupita avrei 

l’accolta folla a un lieto mio ritorno, 

di bei doni donati i fidi miei. 

Non per tale un ritorno or lascerei 

molo San Carlo, quest’estrema sponda 

d’Italia, ove la vita è ancora guerra; 

non so, fuori di lei, pensar gioconda 

l’opera, i giorni miei quasi felici, 

cosí ben profondate ho le radici 

nella mia terra.

Né a te dispiaccia, amica mia, se amore 

reco pur tanto al luogo ove son nato. 

Sai che un piú vario, un piú movimentato 

porto di questo è solo il nostro cuore.




Dopo una passeggiata 


Quando fino ad un colle o lungo il mare

noi pure usciamo nelle belle sere

a passeggiare,

vedo che a tutti appare

cosa fraterna l’alleanza nostra.

Noi cui la vita tanto sangue costa

e tanta inusitata gioia rende,

nulla abbiamo che in vista il volgo offende;

siamo a tutti due buoni, due tranquilli

cittadini, a cui mèta è un buon bicchiere.

Solo nei cuori rispondono squilli,

si spiegano al vento bandiere.

E nei giorni di festa, se pur tanto 

v’ha di strano, che cerco il piú deserto 

dei sobborghi, chi mai vedrebbe in noi 

altro che due che cenano all’aperto? 

Un marito che già ostenta un rimpianto 

di libertà, la sua moglie gelosa; 

non v’ha, dico, una cosa 

che dai molti distingua, amica, noi,

noi che rechiamo in cuore 

i nostri due avversi destini 

d’arte e d’amore.




Piú soli 


Giungemmo dove si ritrova il mare, 

con spiagge solitarie, onde turchine. 

Dai due arsenali, da tante officine, 

da Trieste che amiamo attraversare

tutta al ritorno, sempre piú lontani, 

e piú nostri, in piú deserta riviera. 

Sopra uno scoglio nella rossa sera 

seduti accanto, non l’abbandonavo 

con lo sguardo, ma sempre l’affondavo, 

sempre piú invano nei suoi occhi strani 

di luna che tra le nubi viaggia; 

che mentre intorno a un’anima selvaggia 

e ad una bella persona m’affanno, 

i suoi pensieri chi sa dove vanno!

Da una nave tra molte altre ormeggiata 

venne un suon di fanfara e si distese; 

nei suoi occhi una lacrima s’accese, 

rifulse sulla guancia imporporata.




Nuovi versi alla Lina 


1

Una donna! E a scordarla ancor m’aggiro 

io per il porto, come un levantino. 

Guardo il mare: ha perduto il suo turchino, 

e a vuoto il mondo ammiro.

Una donna, una ben piccola cosa, 

una cosa – Dio mio! – tanto meschina; 

poi una come lei, sempre piú ascosa 

in se stessa, che pare ogni mattina 

occupi meno spazio a questo mondo, 

dare ad un’esistenza il suo profondo 

dolore; solo io qui sentirmi e sperso, 

se piú di lei la mia città non riempio; 

spoglio per essa, e senz’altare, il tempio 

dell’universo.

Una donna, un nonnulla. E i giorni miei 

sono tristi; una donna ne fa strazio, 

piccola, che una casa nello spazio, 

un piroscafo è tanto piú di lei.


2

Quando il rimorso ti dà troppe pene, 

e in fretta mandi mie nuove a sentire; 

vorrei pure rispondere: Sto bene; 

ma che giova mentire?

Per amor tuo, per tua tranquillità 

di fingermi felice anche ho pensato; 

ma tu molto hai vissuto e sai se v’ha 

pace in questo mio stato.

Pure non t’odio; e solo una preghiera 

volgo, per tanta sconoscenza, a Dio: 

che sappi un dí che immensa cosa egli era 

questo vecchio amor mio.


3

Se dopo notti affannose mi levo 

che l’angoscia dei sogni ancor mi tiene, 

e se da quello il mio male mi viene 

che piú in alto ponevo;

se in ogni strada che vidi sí bella 

vedo adesso una via del cimitero, 

e della mia stanzetta il tuo pensiero 

mi fa un’orrida cella;

quel giorno ancora chiamo il piú felice 

dei miei giorni, che in rosso scialle avvolta 

ho salutata per la prima volta 

Lina la cucitrice.


4

Ora se in strada accanto a me ti sento 

(sia vero o falso) tosto il passo affretto; 

eppure credi che non io pavento 

ricevere quel colpo in mezzo al petto.

Mi rivedi in un mese già invecchiato; 

ma temo non sia solo il viver mio 

che come il fazzoletto dell’addio 

sarà tutto di lacrime impregnato.

Calpestato tu l’hai questo mio cuore! 

Ma di una donna non sa far vendetta. 

È abitato da Dio, pieno d’amore; 

nei miei sogni ti chiamo benedetta.


5

Lascia i saluti, anche sinceri, i troppi 

pianti, i messaggi della tua fantesca; 

non v’è cosa di te che piú m’incresca; 

fingiti abbominevole ai miei occhi.

O mia povera amica, oggi, perché 

rattenermi? Non ho abbastanza amato, 

sí che per sempre, e piú assai che non credi, 

del ben che t’ho voluto ti son grato? 

Pianger di che? Non lacrime mi devi 

di rimorso; ma andar diritta e forte, 

ma il silenzio di te, ma la mia morte 

nel tuo cuore; e se questo oggi ti appare 

pena soverchia al dolor che hai recato, 

sol che morto mi pensi, anzi non nato, 

posso ancora pensare 

posso ancora sperare 

che una mattina di sole al destarmi, 

di quante cose che per te ho lasciato, 

di quanta gloria saprei ricordarmi; 

trovar dolci le notti, i giorni brevi 

alla mia gioventú ch’è ancora in fiore; 

sorridere in cuor mio del mio dolore, 

e guarirmi di te.

Ma tu lasciami, tu che nulla sai 

farmi che adesso una viltà non sia. 

Senza volgerti segui la tua via, 

fin che un mesto ricordo in me sarai.


6

La fatica ch’io duro è vana cosa, 

che piú ritorni quanto piú ti scaccio. 

È questa tutta la vita che faccio, 

questa la lunga giornata operosa.

Io sono il prigioniero in riva al mare, 

cui l’acqua entrava nella tonda cella, 

che per non affogare 

senza posa doveva lavorare 

a ricacciarla onde torna in eterno, 

come te, come te che a volte a scherno 

mi prendi, ed altre quasi pia sorella 

mi siedi accanto, mi segui per via; 

che se pur da sí triste compagnia 

solo un momento la vita mi stacca, 

poi bisogna sapere, 

poi bisogna vedere

con quanta forza al petto mi s’aggrappa! 

Dice: Non sono stata io no vigliacca, 

io una povera donna, io non pur bella 

forse, ma certo troppo combattuta. 

Dice: Sei tu, sei tu che m’hai perduta!

Or sorella, or amante, ora nemica; 

ma solo e sempre non veder che te; 

e giorno e notte durar la fatica 

di strapparti da me!


7

Per quante notti che insonne ho giaciuto, 

per l’orror di levarmi ogni mattina, 

tu buona, tu mia dolcissima Lina; 

tu dimmi in carità: Come hai potuto?

Però che tutto io ti perdono quanto 

soffersi, tutte le mie insonni notti, 

i miei sogni agghiaccianti, i sogni rotti 

d’un subito; ma dimmi ora, sorella: 

come hai potuto tu con la tua bella 

faccia, di tanta nobiltà soffusa, 

serbar sí addentro quell’infamia chiusa 

nel cuore, adulterare i baci e il pianto, 

mentirmi ogni carezza, in tuo pensiero 

esser non mia, vivendo a me d’accanto? 

Ecco il delitto, il solo, il grande, il vero 

delitto, che non posso io no scordare, 

che senza fine mi farà odiare 

me stesso, maledire anche il tuo nome, 

chiedermi ognor piú follemente: Come, 

come ha potuto?

Ma questo, ed altro che mi taccio, no, 

non può esser vero: è solo un sogno, sai; 

è un sogno di cui forse morirai, 

è un sogno di cui certo io morirò.


8

Quando il silenzio si fa nel mio cuore, 

sí che in quel tratto io mi risvegli, stanco 

di richiamarmi a un tormento, poi anco 

di scherzare, di fare il gran signore 

col mio vero dolore;

nella quiete in che l’anima è assorta 

(è quel dolore che ha toccato il fondo) 

sento una voce che ben ti ricorda, 

che mi dice: A che mai questi rimpianti? 

T’amavo io sí come nessuno al mondo, 

e per te solo mi facevo bella; 

ma tu stesso hai murata la tua cella, 

ti sei spinto tu stesso nel profondo. 

Perché non so. Fu orgoglio? gelosia 

forse? ma teco io mi stringevo invano; 

sempre piú solo, sempre piú lontano, 

non vedevi i miei tristi occhi imploranti. 

E sí m’amavi – oggi lo so – ma quanti 

strazi m’hai dato al tempo che ancor poco 

ti bastava a serbarmi, anima mia; 

e tu quasi aggiungevi legna al fuoco; 

tal m’apparivi nel tuo infame gioco 

qual chi tutto in un suo sogno s’oblia.

Poi ci perdemmo nella tua follia.


9

Ho fatto un sogno, e ti dirò il ricordo 

che ne serbo. Nei lunghi anni passati 

(i nostri volti sí stanchi e invecchiati 

eran per noi come nel primo giorno)

quanto sdegno di me, quanto rancore, 

quante lacrime m’ero ribevute 

alla salute del mio vile cuore! 

Pur t’aspettavo, e tu venivi, amore; 

che, in sogno, mi volevi sempre bene; 

ed io (ma forse crederlo non puoi) 

scordavo in sogno anche gl’inganni tuoi, 

perdonavo i miei lunghi anni di pene. 

Giusto – dicevo – è giusto stiano insieme 

il marito e la moglie, quando Iddio 

lo vuole, e i tuoi ricordi e il sogno mio; 

quando troppo infelici siamo stati, 

troppo spergiure le nostre promesse, 

ma i nostri cuori troppo appassionati;

quando un giorno ci siamo congedati 

con lacrime, con baci e tenerezze, 

come due fidanzati.


10

Bambina, ed anche tu dici: «La mamma 

è cattiva». La tua mamma cattiva, 

che con quanta dolcezza ti nutriva 

ricordo, e so come ti mette a nanna.

Chi t’ha insegnata la brutta parola? 

Lei, la tua mamma, che chiusa ti gode 

nella sua stanza, sola con te sola? 

Su te, che in grembo le giocavi, il pianto 

ricadeva dei dolci occhi, quel pianto 

suo di donna, che mai uomo non ode 

senza strazio, sincero e traditore, 

come il suo cuore, sí, come il suo cuore, 

che uccidere si deve ed adorarlo; 

ed io invano con te, bimba, ne parlo, 

qui con te che non puoi oggi sapere; 

ma quando avrai piú molte primavere, 

che di me sarai quasi una compagna, 

ti ridirò di lei, della tua mamma, 

udirai cose incredibili e vere. 

Or preghiamo che un raggio della sua 

grazia il cuore t’illumini ed il volto, 

che ben saresti avventurata molto 

se ritrovassi in te la madre tua;

la tua mamma cattiva, la mia Lina, 

che assai fece soffrire e piú sofferse; 

per cui cose scrivevo sí diverse, 

che m’ha data una sí bella bambina.


11

Di te mi parla una voce importuna. 

Dice: Tu l’ami, e non ne hai gioia alcuna. 

Solo il pensiero di lei ti consuma. 

Tu non l’odii: perché?

La fede che le porti è ben tenace. 

Ma non l’onesto, il torbido a lei piace. 

Che mai non ama piú della sua pace? 

Tu non l’odii: perché?

È bella sí, ma ne vediamo tante 

piú leggiadre di lei, di lei men stanche. 

Dice: un amore come il nostro grande 

immortale, perché?


12

La povera sciantosa a chi fa male? 

Non val meglio di noi questa monella, 

giovane come un fanciulletto e bella 

quanto un bell’animale?

Piú innocente di noi, forse piú buona, 

Napoli canta e i facili piaceri. 

Come significando i suoi pensieri 

muove l’agil persona.

Sí poco chiede, e per sí poco un’ora 

t’offre di gioia e quel suo picciol bene. 

Sgombra dal cuore le amorose pene; 

e ti ringrazia ancora.


13

Dico al mio cuore, intanto che t’aspetto: 

Scordala, che sarà cosa gentile. 

Ti vedo, e generoso in uno e vile, 

a te m’affretto.

So che per quanto alla mia vita hai tolto, 

e per te stessa dovrei odiarti. 

Ma poi altro che un bacio non so darti 

quando t’ascolto.

Quando t’ascolto parlarmi d’amore 

sento che il male ti lasciava intatta; 

sento che la tua voce amara è fatta 

per il mio cuore.


14

Dico: «Son vile...»; e tu: «Se m’ami tanto 

sia benedetta la nostra viltà» 

«... ma di baciarti non mi sento stanco». 

«E chi si stanca di felicità?»

Ti dico: «Lina, col nostro passato, 

amarci... adesso... quali oblii domanda!» 

Tu mi rispondi: «Al cuor non si comanda; 

e quel ch’è stato è stato».

Dico: «Chi sa se saprò perdonarmi; 

se piú mai ti vedrò quella di prima?» 

Dici: «In alto mi vuoi nella tua stima? 

Questo tu devi: amarmi».


15

Un marinaio di noi mi parlava, 

di noi fra un ritornello di taverna. 

Sotto l’azzurra blusa una fraterna 

pena a me l’uguagliava.

La sua storia d’amore a me narrando, 

sparger lo vidi una lacrima sola. 

Ma una lacrima d’uomo, una, una sola, 

val tutto il vostro pianto.

«Quell’uomo ed uno come te, ma come 

posson sedere assieme all’osteria?» 

Ed anche per dir male, Lina mia, 

delle povere donne.




All’anima mia 


Dell’inesausta tua miseria godi. 

Tanto ti valga, anima mia, sapere; 

sí che il tuo male, null’altro, ti giovi.

O forse avventurato è chi s’inganna? 

né a se stesso scoprirsi ha in suo potere, 

né mai la sua sentenza lo condanna?

Magnanima sei pure, anima nostra;

ma per quali non tuoi casi t’esalti,

sí che un bacio mentito indi ti prostra.

A me la mia miseria è un chiaro giorno 

d’estate, quand’ogni aspetto dagli alti 

luoghi discopro in ogni suo contorno.

Nulla m’è occulto; tutto è sí vicino 

dove l’occhio o il pensiero mi conduce. 

Triste ma soleggiato è il mio cammino;

e tutto in esso, fino l’ombra, è in luce.




L’ultima tenerezza 


Ti vedo, mia povera Lina,

ti vedo, e una gran tenerezza

mi vince, ti vedo bambina.

Nella casa di tua madre ben triste,

ben devastata, fra i molti fratelli,

senza piangere chi, se non te sola,

non chiamata, si leva ogni mattina?

Or dice, ravviandole i capelli,

dice la madre a questa sua figliola:

«Di buone come te non ne ho mai viste».

Un’infinita attonita dolcezza,

che quasi mi sgomenta, il gracil viso

trasfigura, e pur esso, il tuo sorriso

di devota risponde alla carezza;

nei tuoi occhi è passato il paradiso.

Ami cosí tua madre; ma piú bella

della Madonna è la maestra; augusta

come un tempio la scuola; la tua frusta

vesticciola per lei orni e rammendi.

E se lontano un suono d’ore intendi

(cerchi un nastro, un colore che le piaccia)

un subito spavento, ecco, t’agghiaccia,

come inseguita il rimorso t’accora.

Pensi: Dovessi darle oggi il dolore

d’un mio castigo; fosse scorsa l’ora,

fosse suonata già la campanella!

Ti vedo, mia povera Lina,

ti vedo, e il rimpianto m’investe

piú forte, ti vedo ancor china

sul tuo lavoro; o all’aperto, seduta

a una tavola ingombra, triste e muta

fra le compagne, nella tua Trieste.

Uscita a festeggiar la primavera,

nell’allegra osteria delle Due Strade,

come tarda a venir, Lina, la sera!

Pure, sotto alla pergola, son risa,

son canzoni – uno ha con sé la chitarra –;

tu dal mondo e da te sembri divisa.

Fuor’una che di te quasi è amorosa,

le amiche, fra cui t’ergi agli occhi miei

come tra i fiori minori la rosa,

dicono: «Questa Lina è ben bizzarra,

ben superba»; ed a te brindando quella

che non t’ama, ove dice: «Alla piú bella»,

fra sé soggiunge: «il piú triste destino!»

T’offre il suo braccio e il suo cuore il vicino,

non veduta, una tua lacrima cade

sulla tovaglia macchiata di vino.

Forse che invano in bianco petto hai cuore

d’amante, e sola nel tuo ardore sei,

sola che parli a te di solo amore?

«Alla piú bella il piú triste destino».

Ti vedo, mia povera Lina, 

ti vedo, e alla gola mi serra 

l’angoscia; non gracil bambina, 

non giovanetta alle compagne invisa, 

morta ti vedo; e son io che t’ho uccisa. 

«Levati, se pur m’ami, amor mio santo; 

levati, ed anche mi sorridi un poco. 

Or che non vedi ch’è stato per gioco, 

perché t’amavo, e non sapevo io accanto 

viverti, e lontananza il cor ne spezza?» 

Non risponde; pietà no, non la stringe 

di chi solo da lei sofferse tanto, 

se per farmi morir morta s’infinge. 

«Mi dici che sarà, se non rispondi, 

che sarà della mia povera vita 

se non apri i dolenti occhi che ascondi?» 

Un’infinita attonita dolcezza 

s’incide sulla faccia ben smagrita, 

alta quiete dopo la procella.

«Ora mi porteranno alla Cappella 

dei morti, marcirà sotto la terra 

la tua Lina che un giorno era sí bella». 

Cosí ti vedo; e dopo tanta guerra, 

dopo tante per te notti affannose, 

dentro il mio cuore a Dio rendo amorose 

grazie per non averti ancora uccisa.




La solitudine 


La diversa stagione, il sole e l’ombra, 

variano il mondo, che in ridente aspetto 

ne conforta, e di sue nubi c’ingombra.

Ed io che a tante sue parvenze e ai miei 

occhi recavo un infinito affetto, 

non so se rattristarmi oggi dovrei,

se lieto andar quasi di vinta prova: 

son triste, e fa una sí bella giornata; 

sol nel mio cuore c’è il sole e la piova.

D’un lungo inverno so far primavera; 

dove la via nel sole è una dorata 

striscia, a me stesso do la buonasera.

Le mie nebbie e il bel tempo ho in me soltanto; 

come in me solo è quel perfetto amore, 

per cui molto si soffre, io piú non piango,

che i miei occhi mi bastano e il mio cuore.




Il garzone con la carriola 


È bene ritrovare in noi gli amori 

perduti, conciliare in noi l’offesa; 

ma se la vita all’interno ti pesa 

tu la porti al di fuori.

Spalanchi le finestre o scendi tu 

tra la folla: vedrai che basta poco 

a rallegrarti: un animale, un gioco, 

o, vestito di blu,

un garzone con una carriola, 

che a gran voce si tien la strada aperta, 

e se appena in discesa trova un’erta 

non corre piú, ma vola.

La gente che per via a quell’ora è tanta 

non tace, dopo che indietro si tira. 

Egli piú grande fa il fracasso e l’ira, 

piú si dimena e canta.




Dopo la giovanezza 


1

Non ho nulla da fare. Il cuore è vuoto,

e senza il cuore la saggezza è un gioco.

Non potrei, per compenso, ricordare,

e come nuovo l’antico cantare?

Ma il ricordo fa male alla ferita, 

che dí per dí mi riapre la vita;

e del bene goduto resta poco,

ma il male è lungo quanto il tempo e immoto.

Meglio ch’io faccia come altrove, e vada 

cercando intorno a me nella contrada;

meglio saziare sol per gli occhi il cuore, 

e attendere, se mai torna, l’amore;

l’amor che ci fa nostri anche delusi, 

e quando canta, canta ad occhi chiusi.


2

Quando la vita sale al cuore in piena, 

e l’amorosa immagine balena,

par che al tuo stesso pensiero si celi, 

e l’avvolge il pudore dei suoi veli.

In un silenzio di sera e di mare 

e di ricordi improvvisa t’appare;

ma il cielo non è in lei, né il mare aperto; 

piuttosto ha qualche cosa del deserto.

Ignaro nell’incanto entra il bambino, 

che giunto a pubertà dorme supino.

Là si desta, e non sa di che, fiaccato, 

e vivere vorrebbe addormentato;

se per sospetto le ciglia non serra, 

e in bei pensieri si slancia di guerra.


3

La vista d’una palma giovanetta

mi richiama alla tomba che m’aspetta.

La vista della terra appena smossa

mi mette innanzi un picciol mucchio d’ossa.

E se penso che il mondo è un cimitero, 

questo m’è adesso quel dolce pensiero

che scaccia il tedio che dentro ristagna, 

e poi tutta la vita t’accompagna.

Che resta all’uomo che sofferse tante 

malinconie dell’infanzia aspettante?

ch’ebbe l’adolescenza, ogni sua ebbrezza? 

Che resta oltre la prima giovanezza,

che poco fa, che a tutto fare aspira? 

Forse l’occhio che illumina ove mira.




Sul prato 


È cosí scarso quest’ottobre il caldo 

del sole, che al pallore tuo non giova, 

bimba, sul prato color di smeraldo.

Ivi è un ruscello; a una domanda tua 

io rispondo che è molta acqua di piova. 

Tu mi chiedi se corre a casa sua.

O mi chiami onde in gran fretta si vada 

qualche passo piú in là sull’ampia terra, 

dove quei maschi giocano alla guerra, 

e le bambine come te alla casa.




Un ricordo 


Non dormo. Vedo una strada, un boschetto, 

che sul mio cuore come un’ansia preme; 

dove si andava, per star soli e insieme, 

io e un altro ragazzetto.

Era la Pasqua; i riti lunghi e strani 

dei vecchi. E se non mi volesse bene 

– pensavo – e non venisse piú domani? 

E domani non venne. Fu un dolore, 

uno spasimo fu verso la sera; 

che un’amicizia (seppi poi) non era,

era quello un amore;

il primo; e quale e che felicità 

n’ebbi, tra i colli e il mare di Trieste. 

Ma perché non dormire, oggi, con queste 

storie di, credo, quindici anni fa?




L’osteria «All’isoletta» 


La notte, per placare un’aspra rissa, 

e piú feroce quanto è solo interna, 

penso lotte piú estranee: penso Lissa,

i Bàlcani, Trieste, il vecchio ghetto;

infine mi rifugio a una taverna;

dal suo solo ricordo il sonno aspetto.

Deserta com’è lungo il caldo giorno,

sulle pareti un’isoletta è pinta,

verde smeraldo, e il mar con pesci ha intorno.

Ma di fumi e di canti a notte è piena; 

un dalmata ha con sé la piú discinta; 

ritrova il marinaio la sirena.

Io ascolto, e godo della compagnia, 

godo di non pensare a un paradiso, 

diverso troppo da quest’allegria,

che arrochisce nei cori e infiamma il viso.




Al Panopticum 


Sono entrato, e a mio modo mi ricreo, 

dove ha la folla il suo divertimento, 

a un Fondo Ralli o Fondo Coroneo.

Quanta malinconia di primavera

passa nell’aria, mentre guardo a un lento

suono animarsi figure di cera!

Guardo fin che l’angoscia è in me perfetta, 

e il senso della vita ho rinvenuto. 

Poi esco, e penso: Vado all’Isoletta?

Penso: Se ritrovassi in quel bordello 

quanto è mia colpa se altrove ho perduto! 

Penso: Ancor fossi in libertà un monello,

e andassi fischiettando su e giú, 

con quest’errante nostalgia d’amore, 

antica quanto l’uomo e molto piú,

di cui non v’ha piú dolce crepacuore.




La ritirata in piazza Aldrovandi a Bologna 


Piazza Aldrovandi e la sera d’ottobre 

hanno sposate le bellezze loro; 

ed è felice l’occhio che le scopre.

L’allegra ragazzaglia urge e schiamazza, 

che i bersaglieri colle trombe d’oro 

formano il cerchio in mezzo della piazza.

Io li guardo: Dai monti alla pianura 

pingue, ed a quella ove nell’aria è il male, 

convengono a una sola vita dura,

a un solo malcontento, a un solo tu; 

or quivi a un cenno del lor caporale 

gonfian le gote in fior di gioventú.

La canzonetta per l’innamorata, 

un’altra che le coppie in danza scaglia, 

e poi, correndo già, la ritirata.

E tu sei tutta in questa piazza, o Italia.




Guido 


Sul campo, ove a frugar tra l’erba siede,

mi scorge, e in fretta a sé mi chiama, o impronto

s’appressa, come chi un compagno vede;

sciocchissimo fanciullo, a cui colora 

le guance un rosa di nubi al tramonto, 

e ai quindici anni non par giunto ancora.

Parla di nevicate e di radicchi, 

e del paese ove ha uno zio bifolco. 

Poi, senza ch’altri lo rincorra o picchi,

fugge da me che intento l’ho ascoltato; 

or lo guardo tenersi bene al solco, 

non mai, correndo, entrar nel seminato.

Giunto al cancello, lo vedrò in quel tratto 

tornarmi, se non fa il verso al tacchino, 

o non mi scorda per l’amor che ratto

nasce tra un cane giovane e un bambino.


Ma spesso, per dovere o per trastullo, 

come un buon padre o un amoroso balio, 

conduce a mano un piccolo fanciullo.

E i giorni di lavoro né s’aggira

pei campi, né alla scuola è il suo travaglio.

La mamma sua fuor del caldo lo tira,

assonnato lo manda all’officina; 

non vede come ai giovanetti è bello 

di primavera dormir la mattina.

Là un po’ s’annoia, un po’ ride schiamazza; 

che il mastro, o un piú di lui grosso monello 

lo insegue in una lunga corsa pazza.

Chi lo giunge lo mette rovescioni, 

e se lo serra fra i duri ginocchi. 

Ride il vinto, trattato a sculaccioni,

e ridendo si sente punger gli occhi.


Guido ha qualcosa dell’anima mia, 

dell’anima di tante creature; 

e tiene in cuore la sua nostalgia.

Gli dico: «Non verrai con me a Trieste? 

Là c’è il mestiere per tutti, e c’è pure 

da divertirsi domeniche e feste».

«Laggiú dove ci son – dice – gli slavi?» 

«Vedessi – dico – la bella montagna, 

e il mar dove d’aprile già ti lavi».

«E a Tripoli – risponde – c’è mai stato?»;

e si piega a frugar tra l’erbaspagna,

e a mostrarmi un radicchio che ha strappato.

«Vedessi i nuovi bastimenti, il molo 

di sera»... e vedo irradiarsi in volto 

Guido, che vuol andare, oh sí, ma solo

a Casalecchio, ove ha uno zio bifolco.




Veduta di collina 


Che vedo mai dietro l’erma collina 

che primavera cosí m’avvicina?

Un poco scende, poi risale appena, 

ed insensibilmente ivi s’insena.

V’han colli dove bei nuvoli bianchi 

posano a tonde spalle e larghi fianchi;

ma questo è nella sua linea piú schietto: 

mostra un dorso di lungo giovanetto.

Rade casine, qualche massa oscura; 

dei vigneti sul ciglio dell’altura

azzurreggiano i pali; un picciol vetro 

brilla, e si accende a tutto il sole. Dietro,

come del mare sul lido romito, 

si vede l’occhio di Dio, l’infinito.




La greggia 


Greggia, tu che il sobborgo impolverato 

traversi a sera; ed un lezzo a me grato

dietro ti lasci; e hai tanta via da fare 

tra la furia dei carri e lo squillare

dei tram, dove la vita ha piú gran fretta, 

come lenta procedi e in te ristretta!

Greggia che amai dall’infanzia sperduta, 

per te la doglia si fa in cor piú acuta;

e mi viene, non so, d’inginocchiarmi; 

non so, nel tuo lanoso insieme parmi

scorger, io solo, qualcosa di santo, 

e di antico, e di molto venerando.

Ti mena un vecchio sui piedi malcerto; 

un Dio per te, popolo nel deserto.




Il patriarca 


Nella collina che splende di faccia 

seguo d’un vecchio l’operosa traccia.

Nella mia mente di fantasmi carca, 

non è un agricoltore, è un patriarca.

La sua forza al peccato non s’estingue; 

tien le radici nella zolla pingue,

nel forte figlio, nella bella nuora,

in lui stesso; e con questo non ignora,

lo scaltro vecchio, che la vita è un male, 

che la vita è il peccato originale.

Fin giú all’ultimo campo, per divino 

volere, dato ai suoi, tolto al vicino,

un mondo nuovo ha di sé fecondato. 

Ne gode, e pensa: Felice il non nato!




Attraversando l’Appennino Toscano nell’estate del 1913 


Pur di poco s’allieta il viver mio.

A Prato, ove non ozia il buon toscano,

e di garzoni e d’uomini è un brusio;

ho preso un uovo, due soldi di vino; 

in diligenza fino a Montepiano 

traversai, giogo giogo, l’Appennino.

Spesi, per tanto, un pomeriggio estivo. 

Del vetturale, di quell’aspra terra 

serberò la memoria quanto vivo.

E d’un fattore, pur nel volto onesto,

che di figlioli parlava e di guerra.

Il vicino, che in quel punto era desto:

«Richiamano anche il mio, parte domani. 

Qualcosa ci dev’esser per il mondo». 

Poi piegava la testa fra le mani;

d’un cupo sonno ricascava al fondo.




Caffè Tergeste 


Caffè Tergeste, ai tuoi tavoli bianchi

ripete l’ubbriaco il suo delirio;

ed io ci scrivo i miei piú allegri canti.

Caffè di ladri, di baldracche covo, 

io soffersi ai tuoi tavoli il martirio, 

lo soffersi a formarmi un cuore nuovo.

Pensavo: Quando bene avrò goduto 

la morte, il nulla che in lei mi predico, 

che mi ripagherà d’esser vissuto?

Di vantarmi magnanimo non oso;

ma, se il nascere è un fallo, io al mio nemico

sarei, per maggior colpa, piú pietoso.

Caffè di plebe, dove un dí celavo

la mia faccia, con gioia oggi ti guardo.

E tu concili l’italo e lo slavo,

a tarda notte, lungo il tuo bigliardo.




Nel chiasso 


Seguivo un carro entro l’oscuro chiasso, 

dove sono i miei occhi affascinati, 

e dove il solo mio dolore è a spasso.

Sul carro era una merce assai pietosa: 

gli agnelli nella morte coricati, 

e aveva ognuno nel collo una rosa.

Fanciulli morti in innocenza belli, 

che solo ad accusarmi avevan voce, 

su quel carro vedevo in quelli agnelli.

S’aprí una porta; sulle spalle via 

un uomo li portò, sozzo e feroce. 

Riprese il carro vuoto la sua via;

mentre il beccaio, rimontato lesto 

a cassetta, ogni donna che s’affacci 

manda saluti; ella ai saluti e al gesto

risponde. Poi lo vince anche nei lazzi.




Il ciabattino 


Passò la giovanezza. Assai dispersi

le ricchezze del cuore, e spoglio invecchio.

Sapessi almeno scriver dei bei versi,

un po’ troppo sonori, anche un po’ vani, 

nulla piú che una musica all’orecchio, 

come piacciono i versi agli italiani.

Io sono... io sono appena un ciabattino. 

Vecchie suola s’affanna a rifar nuove. 

Un bimbo piange, pigola un pulcino

sotto il desco; ogni tratto alza la testa, 

aspira l’aria che il bel verde muove 

ed i colori sulle antenne in festa.

Lei, che un dí fu l’amore, oggi non canta, 

non sorride, non è la sua parola 

che una bestemmia; la fatica è tanta,

e non basta a nutrir la famigliola.




De Profundis 


Io vivo... eppure sono un morto, sono 

dentro un abisso; ed odo, ivi sepolto, 

la vita che tra voi s’agita, il suono

della vita, ormai vano; odo la voce

mia che m’è nuova; può affissarmi in volto

l’amico, il mal ridirmi che gli nuoce,

ma dinanzi ha un’immagine mentita; 

sorride, leva i miei occhi al suo viso 

uno spettro quassú della mia vita.

Io giaccio; ed ho solo un pensiero, godo 

solo un pensiero: sono morto, ucciso 

da me in sí strano, in sí felice modo,

che serbo ai cari miei la mia giornata, 

anzi piú mossa, piú fattiva ancora, 

ad opere di buon fine ordinata;

ed a me la mia notte senz’aurora.




Poesie scritte durante la guerra 

La stazione 


La stazione ricordi, a notte, piena

d’ultimi addii, di mal frenati pianti,

che la tradotta in partenza affollava?

Una trombetta giú in fondo suonava

l’avanti;

ed il tuo cuore, il tuo cuore agghiacciava.




Accompagnando un prigioniero1 


La piazza del paese a mezzo il giorno 

come una stampa, pur nuova, d’antico; 

io che cammino di scorta a un nemico, 

e i ragazzi, si sa, dietro ed intorno.

Dal caffè l’ozioso, esce dal forno 

il panettiere, tra la piazza e il vico 

lascia il suono, la man ritrae, il mendico. 

Cosí all’andata, cosí nel ritorno.

Mi fa il saluto, io glielo rendo; e vedo 

che gli occhi pone al deschetto e il pensiero, 

su cui, come Hans Sachs, non canta, io credo;

vestito è un anno, armato a tanta offesa, 

vecchio buon ciabattino, prigioniero 

di guerra, foglia nel turbine presa.

1 Il prigioniero, di professione calzolaio, era stato da me accompagnato al paese per comperarsi gli arnesi del suo mestiere.




Nino 


Quando vedo un soldato, una garretta,

un giovane soldato che con gli occhi

mi segue, e splende al sol la baionetta

vicina al volto della sentinella;

e «coscritto» gli dicono «cappella»

i compagni che fuori escono a crocchi,

a bere, a passeggiare, a far l’amore;

stringe un’angoscia, un rimorso il mio cuore;

penso ad un altro coscritto, a te Nino

Tibaldi, che non torni a chi t’aspetta,

che non torni da Monte Sabotino.

Ti vidi quando già verso i confini 

partivano la notte i reggimenti. 

Non volevi la guerra; ai tuoi vicini 

di branda eri di risa e frizzi oggetto; 

qua e là balzavi, facevi il capretto, 

e il tuo plotone era già sull’attenti. 

«Tibaldi al posto, non fare il buffone 

– altri disse –, o ti metto alla prigione». 

Sorrise poi, ti ammoní con amore; 

e sul volto ti vide ai nuovi accenti 

correre quasi un virgineo rossore.

Non volevi la guerra; e, sí, l’hai fatta.

Eri un bravo, e scrivevi: «Mamma, quando

finirà questa vitta disperatta?»

E scrivevi ai fratelli come a figli,

aspri rimbrotti, amorosi consigli.

«Posso non ritornare, il babbo è un santo

per noi; vi ho dato solo che dolori;

perdonatemi, cari genitori».

E smaniavi, avevi in te un affanno:

pensavi a quelli che han gridato tanto

«Viva la guerra», e alla guerra non vanno.

«Figlio – ti dice ora tua madre in sogno, 

che ad un bacio per via t’offre la buona 

guancia, la vizza guancia di cotogno – 

io t’aspetto, e tu giri per Milano»; 

e nell’angoscia di quel bacio vano 

sembra che per picchiarti a sé ti stringa. 

Tu la guardi, e rispondi: «Podi minga. 

Vengo il giorno a Milano; a notte in zona 

di guerra, giú in trincea devo tornare. 

Per me ho finito; adesso hai tu bisogno 

di pace, resti tu, mamma, a penare».

Dice il babbo, e una lacrima ha versato,

una sola per te ch’eri il suo primo:

«È morto bene, è morto da soldato».

E Baldino, quel prode fanciulletto,

ch’è sempre in alto come l’uccelletto,

il tuo piú caro fratello Baldino,

che un tempo, a chi di te lo richiedeva:

«È sempre in Austria, in trincea», rispondeva;

già la vita, l’oblio di te l’afferra;

dimentico di chi su tutti ha amato,

gioca alla guerra coi morti per terra.

Ecco, nell’aria è ancora primavera, 

ferve nei cuori una rossa ebbrietà. 

Volevo dirti, Nino, che una sera, 

venuto a casa di laggiú in licenza, 

pian piano feci, mamma tua non senta, 

non senta la pedana d’un soldà; 

che Picco è a Col di Lana, e per te manda 

a Monte Sabotino una ghirlanda. 

Addio piccolo, ai rischi eletto e al lancio 

delle bombe, onde hai fatto aspra querela: 

«Mamma, la base principale è il rancio».




Milano 1917 


Per ogni via un soldato – un fante – zoppo 

va poggiato pian piano al suo bastone, 

che nella mano libera ha un fagotto.




Dove al mondo m’ha messo... 


Dove al mondo m’ha messo, e ben non fece 

(ma son trent’anni e piú) la madre mia, 

che ci vò a far nella città natia?

Vestito da soldato italiano,

son là, in un sogno sanguinoso e strano. 

«Pare – dice la gente – che non sia 

dei nostri»; e ad uno fa cenni per via, 

vestito quasi come me, ma invece...

Forse nulla che amai vivo è laggiú. 

Perduta anch’essa la città di Lina. 

Cose a pensarvi di un mondo che fu

entro, e il toscano a scegliermi, in Cantina. 

Solo un soldato v’è, del Sessantotto. 

Mangia insalata e beve vino rosso.




Sognavo al suol prostrato... 


Sognavo, al suol prostrato, un bene antico. 

Ero a Trieste, nella mia stanzetta. 

Guardavo in alto rosea nuvoletta 

veleggiar, scolorando, il ciel turchino.

Ella in aere sfacevasi; al destino

suo m’ammonivo in una poesietta.

Quindi «Mamma – dicevo – io esco»; e in fretta

a leggerla volavo al caro amico.

«Che fai, carogna?» E mi destò una mano: 

e vidi, come al cielo gli occhi apersi, 

tra fumo e scoppi su noi l’aeroplano.

Vidi macerie di case in rovina, 

correr soldati come in fuga spersi, 

e lontano lontano la marina.




Zaccaria 


La vacca, l’asinello, la manzetta, 

al bimbo avvolto in scompagnati panni 

erano stufa nell’inverno; i danni 

ristorava dei morbi una capretta.

La sua mamma, che pace in cielo aspetta, 

sei gli dava nel giro di dieci anni, 

sei fratellini; pur, fra pianti e affanni, 

due volte il dí fumava la casetta.

Là crebbe; e come sognava bambino, 

poco ai campi lo vide il paesello. 

Volle d’agricoltor farsi operaio.

Or – tra gli altri feriti – il tempo gaio

della pace ricorda; sul cappello

ha una penna: l’orgoglio dell’Alpino.


E narra come, il braccio al collo, un giorno 

tornò alla casa per la guerra mesta. 

Nella corte una bimba s’alzò lesta, 

dette un grido. Egli: «Zitta – disse – Mima;

dov’è mia madre?» Della scala in cima 

l’abbracciò, né il vedersi fu una festa. 

«Questa – piangeva – di mio figlio è questa 

la faccia?» «Intero – rispose – ti torno.

Il braccio? Poco ci mette a guarire. 

Coraggio madre; su vi dico; buona». 

E tace, e appena ha piú nulla da dire:

«Fermati Austria, ch’io sto per morire»

coi camerati la canzone intona:

«I miei compagni li vedo fuggire».


O narra quando per tutti di Santa 

Genoveffa la pia storia leggeva. 

Se a tanti casi il pianto non teneva, 

lei, sulla sedia assisa la piú alta:

«Zaccaria – comandava – o leggi o salta 

per questa»; e in mano la bacchetta aveva. 

Sul grandicello una lucerna ardeva, 

gialla, ogni bestia riposava affranta.

Ma se in casa indugiava ai suoi lavori, 

con lui gli amici attendevano, o un suono 

gli mandavano, acuto, dalla via.

Né a feste andavan senza Zaccaria, 

che ben di sé poté scrivere: Io sono 

un quore che con quista molti quori.




Partenza d’aeroplani 


Vanno in su dove il cielo è azzurro netto, 

dove le nubi si vedono sotto. 

Chi resta a terra agita il fazzoletto.




Tre poesie fuori luogo1 


1 Le chiamo cosí perché composte, appena ritornato a Trieste, dopo la fine dell’altra guerra, non appartengono né a Poesie scritte durante la guerra, né a Cose leggere e vaganti.




L’egoista 


Di me ti meravigli e della cosa 

che cosí duramente il mio cuor serra, 

e agli sguardi d’altrui tengo nascosa: 

perché il turbine umano a me sia pace, 

perché tanta dolcezza è in me tenace;

perché del meditare io cerchi l’agio,

pur se i corpi e i pensier strugge la guerra;

e veramente ti sembro malvagio.

Ma un malvagio non sono io no, né un buono.

Sappi tu dunque che un poeta io sono.

Lui le cose conquidono, ma poco, 

che sulla superficie della terra 

fanno col sangue gli uomini o per gioco. 

In fondo scava, in fondo è il suo tesoro; 

nel cuore della Terra, un cuore d’oro.




A una signora 


Quando il giorno verrà che volontario

dirò alla vita addio, 

del mondo che sí bello oggi e sí vario

pare anche all’occhio mio;

di te che vivi i tuoi giorni sereni

e pacata sorridi; 

che regalmente fra i piccoli beni

della vita t’assidi;

saper vorrei pure una cosa (abbiamo

tanto parlato assieme; 

tu l’orecchio inclinando al mio richiamo,

come chi nulla teme);

inattesa novella di me udendo,

che pensieri farai? 

Via l’usato lavoro respingendo,

alta in piè balzerai?




Giovanezza 


Nella via popolosa

(e l’aria è grigia di pioggia, autunnale)

consunto il volto e le membra dal male,

di un negozietto sull’uscio (né cosa

di quel piú oscura è nell’oscura via)

sta un giovane seduto.

Non par che soffra; ascolta in pace, muto,

l’organetto che suona.

Lo guardo; ha in volto popolar fierezza.

E dall’interno un’altra giovanezza

tiene in lui l’occhio nero, di pietà

colmo, del vano dei poveri amore,

quale può solo amare,

e non salvare.

«Ai primi freddi – pensa – morirà».

Amorosa o sorella?

O l’una e l’altra? La povera gente

non li cura che passa; ed io, dolente,

sento a un tratto per essi, sento quella,

diversamente triste, al cor tornarmi

mia giovanezza prima.

Poi la vita mi prese, che sublima,

se non stronca, il dolore;

con le sue mani mi prese spietate

e benedette; e da me s’ebbe alate

fra i tormenti parole, s’ebbe amari

rimbrotti; udire ella non parve alcuna

di mie querele umane,

prese vie strane,

e a mèta mi portò cui vengon rari.

O voi che il dolor strinse,

a cui sta presso, o vi pare, la morte;

giovane sventurato e della sorte

di lui pietosa; povertà lo vinse,

piú forse ancora del morbo; ed io grande

non proverei stupore,

se qui, tra un anno passando, egli fuori

trovassi ancor seduto,

se non di sanità fiorente, almeno

piú lieto in volto, e il negozietto pieno,

non come adesso, di grame verzure,

ma di quante piú belle e piú ridenti

frutta ha la stagione.

tanto vi rechi – se un bene – o creature.




Favoletta alla mia bambina 


Non pianger bimba, non t’accrescer pene;

da sé ritorna, se torna, il tuo bene.

Un merlo avevo, coi suoi occhi d’oro 

cerchiati, col palato e il becco d’oro; 

cui di pinoli e di vermetti in serbo 

nascondevo un tesoro. 

Schivo con gli altri; con me, di ritorno 

dalla scuola, festoso; e tutte, io dico, 

intendere sapeva il caro amico 

le mie parole; onde il dolce e l’acerbo 

di due anni a lui dissi, a lui soltanto. 

E un giorno mi fuggí; fuor del poggiolo 

mi fuggí nella corte. Alto il mio pianto, 

alto suonava; alle finestre intorno 

corse la gente ad affacciarsi; invano 

lo perseguivo, il caro nome invano 

ripetevo; di tetto in tetto errando, 

piú sempre in vista piccolo e lontano, 

irridere pareva al grande mio 

dolore, al disperato dolor mio. 

Quel che ho sofferto non puoi bimba tu 

saperlo; tutto era perduto; e quando 

io non piangevo, io non speravo piú,

l’alato amico ritornò egli solo 

alla sua casa, all’esca d’un pinolo.




Ritratto della mia bambina 


La mia bambina con la palla in mano,

con gli occhi grandi colore del cielo

e dell’estiva vesticciola: «Babbo

– mi disse – voglio uscire oggi con te».

Ed io pensavo: Di tante parvenze

che s’ammirano al mondo, io ben so a quali

posso la mia bambina assomigliare.

Certo alla schiuma, alla marina schiuma

che sull’onde biancheggia, a quella scia

ch’esce azzurra dai tetti e il vento sperde;

anche alle nubi, insensibili nubi

che si fanno e disfanno in chiaro cielo;

e ad altre cose leggere e vaganti.




Favoletta 


Tu sei la nuvoletta, io sono il vento;

ti porto ove a me piace; 

qua e là ti porto per il firmamento,

e non ti do mai pace.

Vanno a sera a dormire dietro i monti

le nuvolette stanche. 

Tu nel tuo letticciolo i sonni hai pronti

sotto le coltri bianche.




推荐阅读:

荷尔德林诗15首

艾米莉·狄金森诗8首

奥登诗30首

布罗茨基诗27首

菲茨杰拉德诗11首

史蒂文森诗5首

屠格涅夫散文诗31首

普希金叙事诗《铜骑士》

竹内新诗2首

岸田衿子《忘却了的秋季》

乌依多博诗10首

纪伯伦散文诗《疯人》

但丁《神曲》天堂篇①

但丁《神曲》天堂篇②

狄金森诗22首

雪莱诗12首

内厄姆·泰特诗11首

杰弗里·希尔《麦西亚赞美诗》

莱蒙托夫叙事诗《童僧》

纪伯伦散文诗《泪与笑》

普希金童话诗《渔夫和金鱼的故事》

阿尔弗雷德·奥斯汀诗10首

亨利·詹姆斯·派伊诗13首

马林·索雷斯库诗23首

紫圭子诗2首

福中都生子诗2首

帕拉诗11首

凯利诗4首

劳伦斯诗17首

拜伦诗19首

布罗茨基诗36首

凌静怡诗5首

罗伯特·勃朗宁诗22首

叶芝诗4首

黑塞诗4首

普希金叙事诗《茨冈人》

罗伯特·勃朗宁诗8首

威廉·华兹华斯《水仙花》

帕斯捷尔纳克《第二次诞生》

W.S.默温诗10首

葆拉·弥罕诗4首

但丁《神曲》炼狱篇①

但丁《神曲》炼狱篇②

莱蒙托夫叙事诗《恶魔》

W·S·默温诗11首

丝塔姆芭诗3首

阿那克里翁诗3首

忒奥克里托斯《欢会歌》

纳雷卡吉《钻石般的玫瑰》

方济各《万物颂》

圭尼泽利《赞美女郎》

屠格涅夫抒情诗52首

特德·休斯诗8首

狄金森诗15首

屠格涅夫叙事诗《巴拉莎》

黑塞诗28首

但丁《神曲》地狱篇①

但丁《神曲》地狱篇②

赫西俄德《工作与时日》

但丁诗7首

安杰奥列里《如果我是……》

卡瓦尔坎蒂《清新鲜艳的玫瑰》

塞万提斯诗2首

巴克基利得斯诗2首

萨福诗5首

阿尔凯奥斯诗2首

米姆奈尔摩斯诗2首

提尔泰奥斯诗2首

奥登诗23首

普希金诗24首

加尔西拉索诗3首

纳沃伊诗3首

巴尔卡诗2首

斯克沃罗达《你啊,黄色的小鸟》


别来生白发 归去换愁心 还复茅檐下 朝朝鸟雀吟
继续滑动看下一个

您可能也对以下帖子感兴趣

文章有问题?点此查看未经处理的缓存